Racconti dal Mali: intervista ad Andrea de Georgio

Intervista
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Andrea de Georgio è un giornalista freelance, esperto di Mali e Africa occidentale. Collabora con CNN, RaiNews24, “Limes”, “Internazionale” ed è ISPI Associate Research Fellow su terrorismo nel Sahel e Islam dell’Africa occidentale. Il suo ultimo libro, scritto con Marco Aime, nel 2021, è Il grande gioco del Sahel. Dalle carovane di sale ai Boeing di cocaina (Bollati Boringhieri). 

A dicembre, i soldati francesi si sono ritirati dal Mali, rimanendo solo a Gao, mentre a gennaio il governo ha annunciato che le elezioni sarebbero state posticipate al 2026, a causa dell’insicurezza. L’inizio della crisi maliana viene collocato nel 2012, quando il Movimento di liberazione dell’Azawad ha proclamato unilateralmente l’indipendenza del Nord, alleandosi con i jihadisti. Quali sono le radici del conflitto?

Sono molto profonde e affondano nella storia del Paese, della regione e nella storia precoloniale e coloniale. È un conflitto multidimensionale e pluristratificato che ha tanti aspetti e sfaccettature.

Il conflitto nel Nord del Mali è figlio della questione tuareg e della questione settentrionale, percepita così in Mali, ma anche in altri Paesi del Sahel centrale come Burkina Faso e Niger. Non è un caso che oggi siano questi tre Paesi l’area di influenza e di azione dei gruppi jihadisti che sfruttano le linee di frattura all’interno delle società in cui si addentrano. All’inizio, le loro linee di comando erano di altri Paesi, con capi soprattutto algerini e mauritani, mentre oggi c’è stato un processo di cambiamento e la linea di comando è sempre più locale, tuareg e non solo. In questo senso, i jihadisti utilizzano i problemi tra centri del potere, le capitali – Bamako, Ouagadougou e Niamey – e le regioni settentrionali saheliane e, nel caso del Mali, anche sahariane. Tutta la parte del nord del Mali – le regioni di Gao, Timbuctu e Kidal – non a caso è stata occupata militarmente dai jihadisti, grazie alla prima alleanza con i tuareg del Movimento di liberazione dell’Azawad. 

Queste zone sono scarsamente abitate e hanno una parte di popolazione tuareg che da sempre rivendica l’indipendenza e ciclicamente prende le armi. Questa radice del conflitto risale anche al processo di decolonizzazione perché, con la Conferenza di Berlino del 1884-1885, le potenze europee hanno spartito i territori africani, disegnando i confini. Fisicamente, soprattutto nel nord di questa regione, non ci sono confini naturali e i tuareg sono popolazioni nomadi e seminomadi che hanno sempre vissuto spostandosi all’interno del grande Sahara. Grazie alle carovane, hanno mantenuto rapporti, scambi commerciali, politici e religiosi con il Nord Africa e attraverso il Nord Africa con il Mediterraneo, l’Europa e l’Occidente. 

Oggi, queste rotte sono controllate da narcotrafficanti, legati a gruppi jihadisti, spalleggiati da una parte di tuareg che non ha mai visto concretizzarsi il sogno dell’indipendenza e neanche di una reale autonomia politica da Bamako. I tuareg, alla fine, hanno deciso di allearsi con le forze jihadiste alle quali hanno consegnato le chiavi delle regioni di Timbuctu, Gao e Kidal. Nel 2012, queste regioni sono state occupate militarmente per nove mesi dai jihadisti che, però, subito dopo, hanno infranto l’alleanza con i tuareg.

Un’altra radice storica del conflitto è la caduta del regime di Gheddafi in Libia. Un gruppo di giovani tuareg viveva alla corte di Gheddafi che si presentava un po’ come il padre di beduini e popolazioni nomadi d’Africa, con questo suo particolare panafricanismo un po’ accentratore. Gheddafi aveva chiamato i tuareg non solo maliani, ma anche nigerini e burkinabé, perché, come dicevamo prima sui confini, i tuareg sono stati sparpagliati in cinque Paesi diversi. Gheddafi si è presentato come il loro padre/padrone, ha ospitato e formato militarmente i tuareg come proprie guardie private. 

Alla caduta di Gheddafi, i tuareg sono tornati nei loro Paesi di origine. I tuareg nigerini e burkinabé hanno negoziato con i propri Stati, prima di rientrare, e hanno accettato di lasciare le armi che sono parte dell’arsenale mai trovato di Gheddafi. Sono tornati preparati, politicizzati e con velleità di riprendere la lotta armata, ma questo è successo solo in Mali, dove non ci sono stati negoziati. Tutte le armi dei cugini nigerini e burkinabé sono finite in Mali e quindi nel 2012 c’è stato lo scoppio di questo conflitto che si protrae fino ad oggi. 

I jihadisti hanno controllato per nove mesi i territori occupati a nord, fino al 2013, quando c’è stato l’intervento militare francese che nel 2014 ha assunto una dimensione regionale, l’Operazione Barkhane. Come possiamo valutare l’intervento della Francia e la successiva decisione di ritirarsi? 

Io ero in Mali durante il conflitto. Tutte le popolazioni del Nord hanno salutato l’arrivo della Francia con bandiere, gridavano «viva la Francia», «viva Hollande». 

L’intervento francese si è sviluppato come risposta alla richiesta ufficiale, perché Traoré, che allora era il presidente della transizione, aveva chiamato Hollande dicendogli che i jihadisti erano a Diabaly, a circa 300 chilometri dalla capitale. C’erano troppi interessi da parte della Francia ed è anche un discorso di rapporti postcoloniali: si è sentita in dovere di intervenire e, bombardando, ha liberato queste città e scacciato i jihadisti. 

Però la popolazione e il governo maliano si sono resi conto che la Francia era lì non solo per liberare il Mali e dare una mano a un Paese amico, ma anche per ridefinire la propria egemonia e chiedere indietro qualcosa e non di poco conto: la base di Tessalit che, a mio avviso, è alle origini dell’interventismo francese in Mali. È una base coloniale e ha una pista per aerei abbastanza lunga verso il deserto: è uno snodo importante. 

Questa base è stata francese, durante il colonialismo, poi nel 1959, l’anno prima dell’indipendenza, il Mali l’ha chiesta indietro. Dal 1959 al 2013, sia la Francia che gli Stati Uniti hanno chiesto di poterla utilizzare e i governi maliani hanno sempre risposto di no. Nel 2013, i jihadisti, probabilmente per mancanza di vettovaglie, hanno provato questa discesa un po’ folle verso sud, forse non con la reale volontà di occupare Bamako. Fatto sta che ciò ha causato l’interventismo francese e, come moneta di scambio, il Mali ha concesso a Parigi la base di Tessalit. Adesso i francesi si stanno ritirando, Gao è rimasta l’unica base operativa in Mali e anche lì stanno smantellando. Di Tessalit non si parla. Credo che la concessione rispetto a Tessalit sia stata data su diversi anni e quindi penso che i francesi manterranno una presenza lì

Tutto questo, però, al netto del fatto che il 31 gennaio all’ambasciatore francese è stato intimato di lasciare Bamako e quindi c’è stato un forte salto in avanti rispetto a questo divorzio ormai annunciato tra il Mali e la giunta e la Francia. Bisognerà capire cosa succederà alla base di Tessalit, se Barkhane accelererà il ritiro, perché non si parla di un ritiro totale, ma di un ritiro graduale. Il ritiro è un gioco strategico che sta facendo Macron che ha le elezioni e sa, così come l’opinione pubblica francese, che la guerra in Mali e nel Sahel non porta risultati, anzi ci sono sempre più morti e costi. 

Il Mali da anni non è più il giardinetto della Francia, ma cerca nuovi partner. La Russia non è arrivata ieri, ma l’altro ieri. Turchia, India, Canada, Australia, Iran e Cina hanno interessi e rapporti di cooperazione militare. Emirati Arabi Uniti, Qatar, Arabia Saudita hanno relazioni economiche e militari con il Mali. 

Come si inserisce la Russia? 

Il Sahel è centrale nella geopolitica mondiale, è per questo che la Russia vuole mettere i piedi lì. Negli ultimi anni, ha giocato tantissimo contro la Francia, usando il proprio crescente peso politico e militare in queste regioni, partendo dal Centrafrica, mandando i propri mercenari Wagner anche in Sudan e Burkina Faso. 

La Russia è tra i primissimi esportatori di armi in Africa. Oggi si dimentica che in Africa non ci sono industrie che producono armi, ma ci sono tantissime guerre, quindi, qualcuno deve pur dare questi armamenti. È un enorme business dove ci sono tante potenze: Francia, Cina, Stati Uniti, Russia, Italia e Turchia. 

Per la Russia è importante dare fastidio alla Francia con cui ha problemi anche nel Mediterraneo orientale e così fa gioco anche contro l’UE con cui ha problemi in Ucraina e Donbass. Bisogna leggere questa regione non come una parte del mondo isolata, come abbiamo fatto purtroppo erroneamente fino ad oggi, ma come uno dei tanti teatri di conflitto ormai globali. È interessante anche la guerra della propaganda: i media governativi russi e turchi, negli ultimi anni, hanno aperto uffici di corrispondenza, mandato giornalisti e creato contro-informazione contro la Francia e anche questo ha influito sul divorzio e sulla crescita del malcontento e della frustrazione delle popolazioni locali. 

Lo spirito cinese e russo è trattare questi Paesi come partner commerciali e non condannare i colpi di stato. Anzi, Russia e Cina hanno messo il veto al voto del Consiglio di sicurezza dell’ONU il 12 gennaio per evitare ulteriori sanzioni contro la giunta. 

Mentre il Nord del Mali era in conflitto, Keita aveva vinto le elezioni del 2013. Nell’agosto del 2020, dopo proteste in piazza, Keita è stato deposto da un colpo di stato. In un articolo su “Internazionale”, hai scritto che c’è stato un sorprendente allineamento tra i militari ammutinati e i manifestanti. Da quel momento, come si è sviluppato il rapporto tra civili e militari? 

Da un punto di vista democratico, noi tendiamo a condannare verbalmente e non solo moralmente questo tipo di azioni che poi, in realtà, viste dalla loro prospettiva non sono violente: non ci sono spargimenti di sangue e molto spesso, soprattutto negli ultimi avvenimenti, sono supportate da buona parte della popolazione delle capitali. Anche se è chiaro che i Paesi reali sono diversi dalla bolla delle capitali, perché ancora il 60% della popolazione vive in àmbito rurale e quindi analizzare solo la realtà delle capitali può essere fuorviante. 

L’insicurezza è stata il punto focale che ha accentrato il malcontento della popolazione rispetto alla crisi economica e sociale che va avanti da dieci anni e dalla quale non si vede uno spiraglio di uscita. Questo malcontento è stato catalizzato sulla questione della presenza jihadista e dell’insicurezza latente e ha fatto sì che parte della popolazione voglia essere fiduciosa nei confronti dei militari

Sicuramente ci sarà una transizione, lo vogliono tutti, non solo le organizzazioni regionali, la CEDEAO, o continentali, l’Unione africana, che spingono verso libere elezioni. Ma ci sono fasi nella storia di questi Paesi, soprattutto nella storia più recente, in cui i militari si ergono a forza garantista repubblicana, al di là delle divisioni politiche, e questo è uno di quei momenti in Mali e sembra esserlo in Burkina Faso [dove c’è stato un colpo di stato il 23 gennaio 2022 N.d.R.]. 

Una transizione di un anno, un anno e mezzo o due anni, come successo già in Mali e nei Paesi limitrofi, è uno schema imposto dalla CEDEAO che ha già dimostrato i propri limiti. Per questo, una parte della popolazione e dell’opinione pubblica maliana ha anche detto: «Ma perché non lasciamo qualche anno a queste persone? Siamo in crisi, c’è un’emergenza, finché non si risolve, non si possono fare libere elezioni». 

Quindi, secondo la popolazione, la volontà della giunta di posticipare le elezioni potrebbe aiutare a risolvere i problemi del Paese? 

Diciamo che la popolazione non ha interesse per forza ad andare alle urne per esprimere il proprio voto, come invece pare abbia fretta la comunità internazionale. Le elezioni sono l’esportazione dell’idea di democrazia occidentale che non funziona qui: basta vedere il tasso di astensionismo. In Africa occidentale, nelle ultime elezioni, ci sono state frodi, scandali e corruzione. 

Ci sono anche momenti di partecipazione popolare democratica dal basso, ma la gente ha scarsa fiducia nelle elezioni. Quello che vorrebbero è una reazione vigorosa e visibile contro il jihadismo e l’insicurezza che ne deriva e un ritorno alla normalità, alla vita di prima, prima ancora che andare a votare. 

Dopo l’annuncio della posticipazione delle elezioni, il 9 gennaio la CEDEAO ha posto nuove sanzioni contro il Mali: chiusura dei confini terrestri e interruzione dei collegamenti aerei, misure economico-finanziarie e ritiro degli ambasciatori dei Paesi della CEDEAO. Il 14 gennaio, la popolazione ha manifestato in piazza e uno degli slogan è stato: «Abbasso la CEDEAO, abbasso la Francia». Come possiamo interpretare queste proteste? 

Quella manifestazione è stata partecipata da più di un milione di persone in piazza. È stata l’ultima di una serie e di cui, purtroppo, non si sente parlare. 

Durante le manifestazioni, questo tipo di slogan si sente da tanti anni, ad esempio: «Abbasso la Francia, abbasso la MINUSMA» che è la missione dell’ONU. Dal 2014, in Mali, ci sono 13 mila caschi blu, ma ancora una volta la percezione della popolazione è che, nonostante la militarizzazione, i mezzi tecnologici e militari messi in campo, i risultati non siano soddisfacenti

Abbasso la Francia, ma anche la CEDEAO per le sanzioni e perché non sta mostrando volontà politica di unità, ma condanna i colpi di stato e l’unico principio su cui continua a ribattere è che, chi è stato eletto, deve rimanere. 

Rafforzare le sanzioni è grave, perché queste non sempre vanno a pesare sulla classe dirigente, ma sulla popolazione che ancor di più si sente abbandonata dalle organizzazioni regionali e continentali. La CEDEAO e l’Unione africana si stanno mostrando come delle brutte copie di quello che vorrebbe l’Occidente e non come delle reali forze endogene che capiscono il cambiamento e, purtroppo, questo le delegittima e gli toglie un po’ di forza. 

Questo è dall’alto verso il basso; invece, dal basso verso l’alto, nella popolazione, nei giovani artisti, c’è panafricanismo. Ci sono state manifestazioni a Dakar, a Conakry e in altri Paesi a sostegno del Mali. Il colpo di stato in Burkina Faso è nato a seguito di manifestazioni a supporto del Mali. Bisognerebbe avere la curiosità e l’umiltà di affrontarle, capirle e leggerle come delle cose che ci riguardano in prima persona, non come cose lontane, come guerre, epidemie e colpi di stato. 

 

 

 

Editing a cura di Beatrice Cupitò

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