Iraq: verso una nuova fase di impasse politica

iraq
@Rodrgio Javier - Flickr - Licenza: Attribution-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-SA 2.0)

di Anthea Beatrice Favoriti

Da ottobre 2019, l’Iraq ha assistito a una serie di proteste che hanno colpito non solo la capitale ma anche l’area centro-meridionale del Paese. La piazza irachena ha chiesto la caduta del governo, elezioni anticipate e lo sradicamento della corruzione dal sistema politico. Il quadro della profonda crisi istituzionale che blocca il Paese da mesi è ora complicato dalla crisi sanitaria legata al Coronavirus. L’evoluzione della situazione in Iraq nei prossimi mesi rimane un’incognita. Tuttavia, ripercorrere gli eventi che hanno condotto all’attuale situazione di stasi può aiutare a leggere quelli che saranno gli sviluppi futuri.

Le rivendicazioni alla base delle proteste

Il primo ottobre 2019 migliaia di persone si sono riunite spontaneamente in piazza Tahrir, a Baghdad. La scintilla che ha scatenato l’inizio delle proteste è stata la revoca dall’incarico del generale Abdul Wahab al-Saadi, vicecomandante delle Unità antiterrorismo (Counter Terrorism Service – CTS), da parte dell’ex PM Abdul Mahdi. La decisione della destituzione di al-Saadi sarebbe stata presa dall’ala politica filo-iraniana, probabilmente a causa della crescente popolarità del generale, considerato da molti un eroe della guerra contro l’ISIS. Inoltre, il CTS è una sezione dell’esercito autonoma e indipendente dal Ministero della Difesa, direttamente controllata dal primo ministro, che è stata creata, supportata e addestrata con il supporto Usa dopo l’invasione del 2003.

Tuttavia, le ragioni del malcontento sono molto più profonde e radicate. La persistenza delle manifestazioni è in gran parte dovuta alle tragiche prospettive economiche del Paese. L’Iraq possiede uno fra i più alti tassi di crescita demografica nell’area e oltre il 58% della popolazione ha meno di 24 anni. L’attuale crisi è innescata dai crescenti squilibri nella politica rappresentativa dell’élite al potere. Il giro di corruzione legato alle entrate petrolifere, il crollo dei prezzi del petrolio e le enormi spese di guerra impiegate contro l’IS hanno notevolmente ridotto la capacità del governo di far fronte alla crescente domanda di servizi, infrastrutture e posti di lavoro. Negli anni così sono aumentate le disuguaglianze sociali.

Ma la principale richiesta del movimento rimane la revisione del sistema confessionale, ossia la muhasasa tai’fiyya, introdotto in Iraq dopo l’invasione americana nel 2003 per garantire una spartizione degli incarichi governativi proporzionale tra i vari gruppi etno-settari. Di fatto però, il sistema ha solo esacerbato la loro rivalità nel vuoto di potere che è seguito alla destituzione di Saddam Hussein. Nepotismo e clientelismo sono diventati endemici, impedendo una distribuzione meritocratica dei posti di lavoro. L’interferenza delle potenze straniere, in particolare gli USA e l’Iran, ha poi contribuito a indebolire il governo locale e renderlo dipendente dall’appoggio esterno.

La risposta della classe dirigente alle manifestazioni

La prima ondata di proteste si è conclusa il nove ottobre con la promessa da parte dell’ex PM Abdul Mahdi di modificare l’esecutivo del proprio gabinetto e promuovere programmi atti a ridurre la disoccupazione e le disuguaglianze sociali. Tuttavia, la criticità della situazione politica e l’aumento graduale del numero delle vittime hanno costretto Mahdi a dimettersi il 29 novembre. La repressione è stata feroce fin dall’inizio: il bilancio dell’Independent High Commission for Human Rights irachena, stima che sono almeno 600 i morti, trentamila i feriti e 72 gli attivisti scomparsi da ottobre a oggi.

Il tentativo di sbloccare la situazione con la nomina di Mohammed Tawfiq Allawi alla carica di premier da parte del presidente Barham Salih, il primo febbraio, è fallito. Il due marzo, il Parlamento si è riunito per votare la fiducia al governo proposto da Allawi, ma non si è raggiunto il quorum necessario alla votazione. Il 17 marzo Barham Salih ha dunque nominato Adnan al-Zurfi, nel tentativo di porre fine ai mesi di stallo. Le diverse fazioni sciite non hanno tardato a esprimere la propria contrarietà, considerato il suo legame con gli USA e la sua cittadinanza americana. Infatti, al-Zurfi non è riuscito a formare il governo e il 9 aprile è stato nominato al suo posto Mustafa al-Kadhimi. Secondo la costituzione irachena, al-Kadhimi ha ora a disposizione trenta giorni per nominare un gabinetto e ottenere il voto di fiducia del Parlamento.

Ancora una volta, nel marasma politico iracheno, Moqtada al-Sadr, leader del blocco parlamentare Sairoon, vincitore delle elezioni del 2018, si è distinto per la sua ambivalenza. Al-Sadr, dopo un iniziale silenzio, aveva offerto ai manifestanti la protezione dei Blue Hats, unità delle milizie a lui fedeli formata in ottobre, per tentare di esercitare qualche forma di influenza sul movimento. Motivo per cui molti manifestanti avevano espresso riserve sulla possibile infiltrazione nel movimento da parte dei sadristi.

Tuttavia, il supporto del religioso al movimento ha avuto vita breve. Dalla fine di gennaio i Blue Hats sono stati protagonisti di una serie di scontri con i manifestanti, tra cui un raid nella città di Najaf il cinque febbraio. A ciò è seguito il supporto di al-Sadr per Allawi, per poi ritirarlo pochi giorni dopo. Dietro questo cambio di strategia vi sarebbe stata la mancata adesione dei manifestanti alla marcia organizzata in funzione anti-USA da al-Sadr il 24 gennaio, a seguito dell’uccisione del Generale Soleimani.

Anche le Forze di mobilitazione popolare (PMU) – le milizie a maggioranza sciita protagoniste della guerra contro l’IS e in parte sostenute dall’Iran – hanno avuto un ruolo chiave nella repressione delle proteste, spesso usando cecchini e uomini in borghese. Al-Sadr ha più volte usufruito del supporto di quest’ultime nell’organizzazione delle mobilitazioni anti-americane.

Nurid watan: l’emergere di una nuova narrativa politica

Il movimento emerso è costituito da una generazione di giovani iracheni sempre più politicizzati. Sebbene sia ancora frammentato geograficamente e non abbia una leadership centrale, il movimento ha sviluppato simboli e narrative proprie che lo distinguono dalle formazioni politiche esistenti.

Un esempio è come spontaneamente il tuk-tuk – mezzo di trasporto che fino a poco prima dello scoppio delle proteste rappresentava una realtà di marginalizzazione sociale e povertà – sia invece diventato il simbolo di una rivoluzione che ha scosso un Paese intero. Oggi, i giovani che li guidano sono i primi a prestare soccorso ai manifestanti, in mezzo ai proiettili e ai lacrimogeni degli scontri.

Parte attiva delle proteste sono state anche le donne irachene, scese in piazza per ribadire il loro diritto alla libertà e rivendicare la centralità del ruolo femminile nella società. Le mobilitazioni più importanti sono avvenute a seguito di un appello diffuso da al-Sadr il dieci febbraio, in cui si criticava il loro coinvolgimento nella vita politica irachena. La risposta femminista non si è fatta attendere: a migliaia si sono riversate nelle strade, sfidando la visione patriarcale dei ruoli di genere.

Nel frattempo, la diffusione del Coronavirus ha portato una sospensione temporanea delle proteste. Il governo ha infatti imposto fino alla fine di marzo un lockdown a livello nazionale che interesserà scuole, università e altri luoghi di ritrovo, così come i molteplici aeroporti internazionali. Anche se le strade sono vuote, è probabile che le proteste continuino su internet. Già da ottobre i social avevano svolto un ruolo importantissimo, rappresentando una sorta di alternativa all’azione ufficiale, contribuendo ad attirare l’attenzione e la solidarietà dei media di tutto il mondo.

Conclusione

La nomina di Al-Zurfi ha segnato un duro colpo per tutte le fazioni filo-sciite presenti nel Paese. Qualora il premier riuscisse a costituire il governo, la stabilità politica potrebbe essere messa nuovamente a rischio, data la sua alleanza con gli Stati Uniti. Alla luce di queste tensioni e del contenimento della crisi sanitaria, l’economia continua a destare preoccupazione. Inoltre, in un quadro interno già di per sé così fragile, un’eventuale escalation del conflitto fra Iran e USA potrebbe portare quest’ultimo a voler intensificare la protezione delle proprie basi o proseguire le rappresaglie, e questo trascinerebbe l’Iraq in una nuova e lunga spirale di incertezza. Sebbene, infine, il movimento di protesta si sia fatto portavoce di istanze politiche trasversali, non è riuscito a includere al suo interno un importante componente della popolazione: la minoranza sunnita, dominata dalla paura di una ritorsione da parte delle autorità e delle forze di sicurezza, per lo più sciite.

 

Fonti e approfondimenti

Centre Arabe de recherches et d’études politiques (CAREP), Manifestations en Irak: une nouvelle génération protestataire unie face à la violence d’État, 28/10/2019

Middle East Monitor,  Iraq: MPs shun vote to approve new cabinet, again, 1/03/2020

The World Bank in Iraq, 1/10/2019

T. Badawi, Why Arab Sunnis are disengaged from Iraq’s protests, Atlantic Council, 7/02/2020

The Iraqi Civil Society Solidarity Initiative (ICSSI), Feminist Marches Take to the Streets of Iraq, Directly Challenging Social Norms, 28/02/2020

H. Halawa,  The Forgotten Iraq, Middle East Institute, 16/03/2020

A. Al-Rubaie, Despite Political Turmoil and Coronavirus, Iraq’s Protest Movement Continues, The Washington Institute, 23/03/2020

UNICAF, Iraq faces calamity as oil prices crash amid protests and coronavirus crisis, 19/3/2020

Leave a comment

Your email address will not be published.


*