di Matteo Mannocchi
Nel corso degli anni, l’equilibrio idrico in Medio Oriente e Nord Africa (MENA) si è incrinato anche nelle zone meno aride come la Mezzaluna Fertile, ovvero quei territori che collegano le coste sud-orientali del Mediterraneo fino al Golfo Persico. Al contrario di altre aree del MENA, come la Penisola arabica o il Maghreb, nella Mezzaluna Fertile sono presenti importanti bacini idrici tra cui quello del Nilo, dell’Eufrate, del Tigri e del Giordano. Nonostante ciò, anche questa regione deve fare i conti con una crescente scarsità d’acqua e con siccità sempre più frequenti e intense.
La Siria è in termini assoluti uno dei Paesi dotati di maggiori risorse idriche nella regione del MENA. Tuttavia, secondo la metodologia di classificazione internazionale, risulta un Paese caratterizzato da “Water Scarcity”, poiché la disponibilità pro capite annua è compresa tra 500 m3 – 1000 m3. Le criticità sono aumentate negli ultimi decenni a causa di diversi fattori che andremo ad analizzare.
Negli anni precedenti al conflitto, il livello di stress idrico è aumentato significativamente. È indicativo che nel 2000 circa 7 milioni di siriani vivevano in aree afflitte da scarsità d’acqua, mentre nel 2010 il numero stimato è salito a 11 milioni. A partire da questi dati, gli studiosi del settore si sono posti diversi interrogativi. A cosa era dovuto il crescente stress idrico del Paese? È possibile individuare un nesso tra cambiamenti climatici, carenza idrica e lo scoppio del conflitto nel 2011?
Situazione idrica e dinamica demografica
Il territorio siriano è diviso in sette bacini idrici molto diversi tra loro in termini di precipitazioni, presenza di acque superficiali o di falda e per la morfologia del terreno. Si passa infatti dalle zone relativamente piovose al confine con il Libano o sulla costa (<1000 mm), al deserto della Badia al confine con Giordania e Iraq (>100 mm). Il bacino idrico più importante è quello dell’Eufrate che soddisfa circa il 40% dell’intera domanda del Paese. Qui le precipitazioni sono modeste (217 mm), e il fiume è alimentato principalmente dallo scioglimento delle nevi e dalle precipitazioni in territorio turco. Alla fine degli anni ’70, il regime ultimò la costruzione della diga di Tabqa lungo il corso dell’Eufrate, nel governatorato di Raqqa. Venne così formato il lago Assad, la riserva principale del Paese, con l’obiettivo di incrementare la porzione di terra irrigata e la produzione di energia elettrica, risultati ottenuti solo in parte.
La dinamica demografica ha enormemente contribuito ad aumentare la pressione sulle risorse idriche del Paese. Come in tutta la regione medio-orientale, anche in Siria si è riscontrato un significativo aumento della popolazione negli ultimi decenni: si è passati dai 9 milioni di abitanti censiti nel 1980 ai 21 milioni del 2010. Inoltre, a causa dell’accresciuto benessere di alcune fasce della popolazione, è aumentato il consumo pro-capite di prodotti da allevamento, che richiedono grandi quantità di acqua in confronto a una produzione vegetale.
Le politiche agricole
Oltre a ciò, bisogna considerare l’impatto delle scelte del governo in ambito agricolo: fino agli anni ’90 il governo perseguì una politica di autosufficienza alimentare; successivamente adottò una politica orientata all’export, incentivando la produzione di grano, cotone e legumi anche in zone inadatte all’agricoltura intensiva. Si giunse quindi al paradosso per cui un Paese caratterizzato da scarsità d’acqua come la Siria arrivò a destinare il 90% del prelievo idrico al settore agricolo e divenne esportatore netto di generi agricoli. La superficie irrigata raddoppiò tra il 1985 e il 2010 anche grazie a un’incontrollata trivellazione di pozzi.
Nello stesso periodo, pochi investimenti furono destinati alla modernizzazione dei sistemi di irrigazione per aumentarne l’efficienza e ridurre lo spreco d’acqua. Al contrario, i sussidi che vennero erogati per il consumo di combustibili fossili resero molto poco oneroso estrarre acqua dalle falde con delle pompe diesel. E i coltivatori, oltre a voler aumentare la resa dei raccolti, cercarono di tutelarsi contro le avverse condizioni climatiche registrate negli ultimi anni. L’eccessivo sfruttamento delle falde, però, ne ha determinato un rischio di esaurimento. Il governo intervenne solo nel 2005 impedendo ulteriori trivellazioni, ma la mancanza di controlli e la corruzione dei funzionari locali rese inefficace tale misura.
Cambiamento climatico
Nonostante il Medio Oriente sia storicamente soggetto a periodi di estrema siccità, molti studi dimostrano come in tempi recenti la regione è stata colpita da questo fenomeno in maniera più massiccia rispetto alla normalità. La temperatura media nella Mezzaluna Fertile è aumentata di almeno un grado rispetto ai valori di inizio secolo scorso e la maggior parte di questo aumento è stato registrato dalla fine degli anni ’80. Nello stesso periodo è stata osservata anche una significativa diminuzione delle precipitazioni nella stagione delle piogge, fondamentali per riempire le riserve e le falde, alimentare i corsi d’acqua e mantenere l’umidità del suolo durante e dopo la semina. Secondo uno studio coordinato dal NASA Goddard Institute for Space Studies, gli anni tra il 1998 e il 2012 sono stati i più secchi degli ultimi 500-900 anni.
Il periodo precedente al conflitto, soprattutto dal 2007 al 2010, fu particolarmente duro per le zone nord-orientali e sud-occidentali della Siria. Nella stagione invernale a cavallo tra il 2007 e il 2008 si registrò una diminuzione drammatica delle piogge nei governatorati di al-Hasaka (-66%), Deir el-Zor (-60%), al-Raqqa (-45%) e del Rif di Damasco (-48%). In queste zone è localizzata il 75% della produzione di grano del Paese e le colture sono alimentate principalmente dalle precipitazioni. Nel 2008 i raccolti diminuirono del 32% in aree irrigate e del 79% in aree non irrigate e la Siria tornò a essere importatore netto di grano per la prima volta in quasi vent’anni.
Seppur meno severa, la siccità continuò negli anni successivi portando allo stremo i contadini e gli allevatori siriani. Nel 2010, un discreto livello di precipitazioni nel periodo invernale non bastò a scongiurare altri ingenti danni, poiché venne seguito da 55 giorni consecutivi di assenza di piogge durante la stagione di crescita dei raccolti.
Lo scoppio del conflitto
L’ ONU stima che più di 1,3 milioni di siriani subirono gravi conseguenze connesse alla siccità, constatando che, oltre ai devastanti danni economici, in pochi mesi aumentarono drasticamente i casi di malnutrizione, mortalità infantile e anemia. Si stima che, nei quattro anni di siccità, circa 800.000 persone abbiano abbandonato le proprie terre. Sfiniti da anni di scarsi raccolti, decine di migliaia di siriani del nord-est furono costretti a migrare verso i sobborghi delle grandi città o nelle zone limitrofe, un tempo rurali e ora situate a ridosso dei centri urbani. Qui le condizioni di vita erano complicate sia per i vecchi residenti che per i nuovi arrivati data la carenza di servizi di base, la precarietà della situazione abitativa, l’assenza di assistenza e la crescente competizione per lavori sottopagati e irregolari.
La siccità, in combinazione con le antiche e le recenti spaccature nella società siriana, contribuì ad aumentare il risentimento verso uno Stato assente e debole nell’affrontare questioni sociali, ma duro e violento nella repressione del dissenso. Le aree più colpite dalla siccità e quelle interessate da un maggior flusso di immigrazione rurale furono quelle maggiormente allineate su posizioni antigovernative. Proprio in queste aree disagiate i ribelli trovarono terreno fertile per le proprie strategie di reclutamento o per stabilire delle roccaforti dal 2011. Per fare qualche esempio, menzioniamo la Ghouta (tristemente nota per i duri scontri e gli attacchi chimici) e Tadamon alla periferia di Damasco, Daraa e la regione dell’Hawran, Baba Amr nei sobborghi di Homs, Aleppo est e le campagne circostanti, e l’intera area del nord-est che si costituirà nella regione autonoma del Rojava.
Crisi idrica e conflitto: quale legame?
Sebbene la Siria sembrasse inizialmente estranea ai tumulti legati alle primavere arabe, vari settori della società covavano da tempo insofferenza verso il regime. Nel composito universo di gruppi ribelli o di semplici manifestanti erano riconoscibili diverse rivendicazioni, come la fine dell’asfissiante sistema di sicurezza interna, la richiesta di diritti civili o il riconoscimento di autonomia politica e culturale (vedi la questione curda). O ancora, una riduzione delle crescenti disuguaglianze causate dalla transizione verso un’economia di mercato dominata in realtà da una ristretta cerchia vicino al partito unico. Era inoltre diffusa una certa ostilità verso una leadership sciita a capo di un Paese a maggioranza sunnita. Infine, a livello regionale e globale, il governo siriano aveva molti nemici pronti a supportare i gruppi ribelli per un rovesciamento del regime.
A questi fattori di instabilità socioeconomica e politica si aggiunsero periodi di siccità sempre più frequenti e intensi. La siccità del 2007, infatti, colpì solo pochi anni dopo quella già drammatica del 1998-2001. L’effetto combinato delle miopi politiche agricole del regime e dei cambiamenti climatici hanno incentivato un eccessivo utilizzo delle risorse idriche con il conseguente prosciugamento di molte falde e corsi d’acqua come il Khabur, fondamentale per l’economia della Siria nord-orientale. Il susseguirsi delle siccità minacciò le possibilità di adattamento della popolazione colpita, che non ebbe altra scelta se non quella della migrazione. Questo fenomeno ha perciò ulteriormente contribuito ad alimentare disagio e conflittualità.
In conclusione, è possibile sostenere che i cambiamenti climatici e la carenza idrica abbiano avuto un ruolo nello scoppio del conflitto siriano, anche se è complesso stabilire in quale misura poiché i germi del conflitto erano già presenti. Sono sempre di più gli studiosi concordi nel ritenere che i cambiamenti climatici costituiscano una minaccia alla sicurezza globale, soprattutto in aree caratterizzate da un contesto politico precario e da una situazione ambientale compromessa. I cambiamenti climatici e il degrado ambientale, in ultima sintesi, più che una causa diretta di conflitti, possono essere considerati come dei “fattori aggiuntivi di rischio”.
Fonti e approfondimenti
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