L’articolo che stai leggendo è firmato dalla redazione perché Lo Spiegone ritiene fondamentale la tutela fisica, mentale ed economica dei propri collaboratori e delle proprie collaboratrici. Ogni qual volta tale tutela è a rischio, ricorriamo a questa formula. Le idee contenute nell’articolo non rispecchiano necessariamente l’esperienza e le opinioni di tutte le persone della nostra redazione, ma rispettano comunque i valori e la linea editoriale del nostro progetto.
Il regime autoritario di Vladimir Putin non si basa soltanto su meccanismi di coercizione dall’alto, faticosi, dispendiosi e di difficile gestione in un territorio vasto come la Russia, bensì si appoggia anche a un solido consenso popolare, ottenuto in parte tramite il monopolio dell’informazione. Il fondamento mediatico del consenso di Putin fa sì che il suo potere sia “co-costruito”, ossia che dipenda, parzialmente, dall’entusiasmo e dal sostegno della popolazione in risposta alle campagne e alle politiche portate avanti dal Cremlino.
Tuttavia, negli ultimi vent’anni la trama del supporto al regime ha mostrato falle evidenti: in numerose occasioni la società civile si è divisa, e si sono formati gruppi che hanno contrastato questa base di supporto con forti spinte anti-regime.
L’ascesa dei primi mandati
I primi due mandati di Putin, dal 2000 al 2008, furono un periodo di relativa fioritura per il regime. Impostosi come colui che riportò ordine e benessere in un Paese sconvolto dal caotico decennio di presidenza El’cin conclusosi con le drammatiche vicende in Cecenia, Putin instaurò con metodi decisamente antidemocratici il controllo sui media e sui principali asset dell’economia russa. Accentrò inoltre il potere federale nel Cremlino, instaurando meccanismi di controllo sui governi regionali.
Arrivato alla scadenza del massimo di due mandati consecutivi, Putin si fece da parte per lasciare la presidenza a Dmitriy Medvedev per il mandato 2008-2012. Sebbene non vi fossero dubbi su chi detenesse realmente il controllo del Paese, questo passaggio di potere rasserenò le democrazie occidentali. Durante il suo mandato, poi, Medvedev portò avanti una serie di riforme volte a modernizzare il Paese e riallacciò i rapporti con gli Stati Uniti.
Lo snodo del 2012
Fu con le elezioni parlamentari del 2011 – in cui Russia Unita ottenne la maggioranza schiacciante dei seggi ma si registrò la presenza di numerose irregolarità – che l’equilibrio precario su cui verteva la Federazione Russa cominciò a incrinarsi. Vi furono le prime proteste contro le frodi elettorali, perlopiù pacifiche. Nel 2012, si arrivò al punto di rottura: Putin si candidò di nuovo alle presidenziali e vinse con il 63,6% dei voti e un consistente numero di brogli largamente documentati. Nel frattempo, l’economia russa era ufficialmente entrata in fase recessiva, ponendo fine a quella che a partire dagli anni Duemila era sembrata una grande ascesa.
In questo contesto, alle elezioni presidenziali del 2012 seguirono sei mesi di proteste, tra cui la famosa “Marcia dei Milioni” del 6 maggio 2012 in piazza Bolotnaya, a Mosca. Il popolo, senza cedere alle intimidazioni e alle violenze delle forze dell’ordine, chiese elezioni “giuste e libere” secondo il modello democratico. Furono le manifestazioni più partecipate dagli anni Novanta: migliaia di persone si scontrarono con la polizia per mesi, con conseguenti numerosi arresti (tra cui anche Aleksey Naval’niy, fra i leader del movimento) e condanne.
La risposta del Cremlino fu ferrea. In seguito alla primavera di proteste, Putin diede il via a un’ondata di interrogatori, arresti e processi. Intraprese una serie di riforme, coinvolgendo anche la legge elettorale, e tolse ulteriore autonomia ai soggetti federali, fino ad abolire l’elezione dei governatori per passare alla nomina diretta da parte del presidente (poi revocata). Estese il mandato presidenziale da 4 a 6 anni e intensificò la propaganda relativa a valori ultra-conservatori, come il legame fra Stato e Chiesa ortodossa e i provvedimenti anti-LGBT. Strinse la presa anche sulla libertà di espressione, potenziando i mezzi di controllo della rete.
Parentesi dorata: la Crimea
L’annessione della Crimea nel 2014 si rivelò provvidenziale per distogliere la Russia dalle proprie tensioni interne. L’evento fu propagandato dal governo a reti unificate con una narrativa ipernazionalista incentrata su una “grande missione nazionale” che unisse il popolo russo, ancora disorientato dopo la caduta dell’URSS – in questo caso, “gloriosamente vinta”.
La Crimea, quindi, contribuì a riaccendere l’ardore patriottico nel popolo russo, distogliendo l’attenzione dal malcontento per qualche anno. Ben presto, tuttavia, molti si resero conto che, nonostante la retorica della “nazione in ascesa”, il benessere economico per la Federazione Russa era un ricordo sempre più lontano. L’enorme budget allocato per l’operazione in Ucraina, oltretutto, contribuì a lasciare le aree più remote della Russia in una grave condizione di degrado socio-economico.
Le proteste più recenti
Il trend discendente dell’indice di gradimento per il governo russo è crollato definitivamente nel 2018, in seguito alle riforme del welfare. Subito dopo essere stato rieletto presidente con il 76,6% dei voti e le ormai usuali accuse di brogli, quello stesso anno Putin annunciò un’importante riforma delle pensioni che aveva sostanzialmente taciuto in campagna elettorale. Decine di migliaia di persone manifestarono nelle strade di molte città del Paese per tutta l’estate, capitanate da politici indipendenti, come Aleksey Naval’niy e Sergey Udalcov, e dal Partito comunista. L’Assemblea federale finì con l’apportare alcune modifiche minori al disegno di legge, per poi approvarlo comunque a fine settembre del 2018.
Nell’estate del 2019, Mosca fu sconvolta dal caso Golunov: Ivan Golunov, giornalista d’inchiesta della testata online indipendente Meduza, fu arrestato e sottoposto a processo penale per detenzione di sostanze stupefacenti. Il caso fece grande scalpore per via delle numerose violenze commesse dalle forze dell’ordine ai danni di Golunov e per via della campagna mediatica lanciata da Meduza e dalle altre testate indipendenti russofone.
Nei giorni immediatamente successivi all’arresto, quindi, decine di migliaia di persone riempirono piazze e strade per richiedere il rilascio di Golunov e di altri prigionieri politici. Cinque giorni dopo l’arresto, il ministero dell’Interno russo lasciò cadere tutte le accuse e liberò il giornalista. Le proteste però non si fermarono, anzi: Mosca e le altre città maggiori della Russia videro manifestazioni sempre più popolose per tutta l’estate, fino a raggiungere numeri più alti del 2012. “L’affaire Golunov” fu la scintilla necessaria a infuocare il malcontento di una società civile sempre più coesa.
I cittadini, insieme ai leader dell’opposizione, manifestarono anche in vista delle elezioni regionali dell’8 settembre 2019, chiedendo ancora una volta consultazioni “libere e giuste”. In questa occasione, le autorità impedirono a molti candidati indipendenti di presentarsi alle elezioni, grazie a una commistione di limitazioni previste dalla legge elettorale e numerose intimidazioni e minacce.
Uno scenario simile ha caratterizzato le manifestazioni di Khabarovsk, cittadina dell’Estremo Oriente russo, che vanno avanti ininterrottamente dallo scorso agosto. Davanti all’arresto del governatore della regione Sergey Furgal con accuse relative a un omicidio avvenuto quindici anni fa, e alla sua pronta sostituzione con un funzionario vicino al Cremlino ed estraneo alle politiche locali, la popolazione locale ha reagito con un’insurrezione senza precedenti.
Proteste come quelle di Khabarovsk, tuttavia, non sono basate su un sentimento di autentica opposizione allo status quo di Mosca: Furgal era, dopotutto, un esponente del partito liberaldemocratico (che nonostante il nome ha una linea ultraconservatrice) che non ha mai agito in aperta opposizione al Cremlino, ma ha portato avanti una linea filo-populista che aveva gli interessi locali come priorità assoluta. Pertanto, il forte malcontento è da considerarsi una reazione a una percepita ingerenza da parte del governo federale su un territorio remoto che desidera vedersi riconosciuta la propria dignità e autonomia.
Un movimento eterogeneo contro il centralismo dispotico
Il desiderio di un processo elettorale che rispetti i principi della democrazia rappresentativa e la dignità del popolo russo è tra i leitmotif delle proteste dal 2012 in poi. L’altro filo conduttore, in questo senso, è l’ambientalismo, diventato sempre più spesso motore delle manifestazioni negli ultimi anni. Il Cremlino, infatti, tende a considerare il suolo come una risorsa di cui disporre a proprio piacimento per perseguire scopi economici a breve termine, spesso con politiche discriminatorie fra cittadini “di serie A” (gli abitanti dell’oblast’ di Mosca, prima in assoluto per produzione di rifiuti) e cittadini “di serie B” (gli abitanti delle oblast’ periferiche, che devono farsi carico dei rifiuti della capitale).
La popolazione russa si è dimostrata sensibile a queste tematiche: è il caso delle proteste violentissime ad Arkhangel’sk e nella repubblica di Komi, che da tre anni vedono scontrarsi cittadini, forze dell’ordine e agenzie di sicurezza private attorno alla costruzione di discariche in cui sotterrare, senza ulteriori processi di smaltimento sostenibile, i rifiuti moscoviti. Ma è anche il caso delle proteste dell’estate scorsa a Ekaterinburg in seguito alla decisione da parte dell’amministrazione di sventrare il parco principale della città per costruirvi una chiesa ortodossa. Lo stesso scenario si è riproposto quest’estate vicino a Ufa, nella repubblica del Bashkortostan, in seguito alla decisione del governatore di disboscare grossa parte del territorio per favorire la produzione di bicarbonato di sodio, poi rimandata in seguito alle proteste.
In questo panorama vasto ed estremamente eterogeneo di azione collettiva si possono riconoscere alcuni tratti fondamentali. Vi è innanzitutto la voglia di affrancarsi da un potere estremamente centralizzato e percepito come oppressivo. Vi è poi la volontà di affermare e vedere rispettata la dignità del suolo abitato, tramite una rappresentanza che non si limiti a essere fredda emissaria del Cremlino, ma che abbia l’interesse pubblico locale al centro delle proprie politiche. Infine, vi è anche una crescente consapevolezza e intolleranza nei confronti delle azioni irregolari, illegittime e spesso violente portate avanti dal governo russo, durante le procedure elettorali e rappresentative.
Alle rimostranze del popolo, il governo russo ha sempre risposto con la strategia dell’indifferenza e dell’esclusione totale dal panorama mediatico. Dalle proteste ambientaliste a quelle elettorali, le mobilitazioni sono state sistematicamente ignorate dai media di Stato (vale a dire, la loro quasi totalità), aumentando notevolmente il divario fra cittadini e governo.
Fonti e approfondimenti
A. Zafesova, Le proteste di Khabarovsk e il popolo ignorato da Putin, Affarinternazionali, 2020
S. A. Greene and G. B. Robertson, Putin VS The People: The Perilous Politics of a Divided Russia, Yale University Press, 2019
M. C. Franceschelli, Le proteste ambientaliste in Russia: dall’Artico agli Urali, Gli asini, 2019
I. Davydov, An Unholy Mess In Yekaterinburg, Riddle, 2019
Ciao Luca, molte grazie a lei! Non è facile rispondere alla sua domanda: si tratta infatti di una vicenda complessa, e soprattutto molto sfaccettata. In ogni caso, gli altri articoli del nostro ciclo “Venti di Putin” in particolare in merito a economia e welfare possono aiutare a rispondere, così come i miei due articoli sul federalismo russo, che trova qui cliccando sul mio nome. Grazie!