Sono ormai passati vent’anni da quando, nel 2000, Vladimir Putin è salito ai vertici del Cremlino, aprendo un’egemonia durata fino a oggi senza interruzioni di fatto. Dopo aver esplorato le politiche sociali, in questo articolo approfondiremo le politiche economiche che hanno segnato la presidenza Putin lungo l’ultimo ventennio.
Parte del consenso di Putin passato e presente è dovuto alla sua fama di unico leader in grado di riportare stabilità alla Russia dopo il periodo dei “selvaggi anni Novanta”. Salito in carica come presidente nel 2000, infatti, Putin ha dovuto fare i conti con l’eredità della presidenza di El’cin. Compito non facile: negli anni Novanta, le politiche di privatizzazione sfrenata e l’assenza di strutture governative e finanziarie che agevolassero il passaggio all’economia di mercato avevano portato l’economia russa al collasso, concentrando capitale, reddito e risorse nelle mani di pochi oligarchi.
L’eredità dei “selvaggi anni Novanta”
Oltre all’inflazione alle stelle, alla decrescita del PIL e al collasso del sistema bancario in seguito alla liberalizzazione selvaggia, gli anni Novanta russi si conclusero con la terribile crisi finanziaria del 1998. La crisi contagiò sia l’economia di Paesi in via di sviluppo che quella delle grandi potenze. Pertanto, il crollo del prezzo del petrolio e la svalutazione del rublo resero ancora più impellente il bisogno di riacquistare il controllo su un’economia ormai allo sbando.
Tuttavia, l’ascesa di Putin cominciò sotto una buona stella. Nel 2000, il prezzo del petrolio riprese a salire, fino a raggiungere un picco di 150 dollari a barile all’inizio del decennio successivo. Il sistema del petrodollaro, ossia le valute di riserva incassate grazie all’aumento del prezzo del greggio, concesse dunque a Putin un margine d’azione più ampio per riformare l’economia russa.
Il fallimento del “Piano Gref” fra 2000 e 2010
Come trasformare una Russia depredata e zoppicante in una moderna ed efficiente economia di mercato? Il primo approccio sistematico alla questione fu il cosiddetto “Piano Gref” ideato per il periodo fra 2000 e 2010. Prende il nome da German Gref, ex ministro dell’economia e ora amministratore delegato di Sberbank, la più grande banca russa.
Il piano prevedeva sostanziali riforme nella previdenza sociale, un aumento della spesa pubblica con una concezione di welfare più liberale, incentivi alla privatizzazione, la creazione di infrastrutture finanziarie moderne e la semplificazione della burocrazia. Furono anche interamente ripagati i debiti contratti dalla Russia negli anni Novanta con il Fondo Monetario Internazionale (FMI).
Inoltre, Gref fu tra i maggiori promotori dell’ingresso del Paese nell’Organizzazione Mondiale per il Commercio, avvenuto nel 2012, e contribuì alla creazione di un fondo russo di stabilità e all’introduzione di un fondo assicurativo sui depositi bancari. Ciò portò a una rapida crescita economica nei primi anni Duemila e attirò molti investimenti dall’estero.
Tuttavia, due fattori finirono con l’intralciare questi progetti ambiziosi. Da un lato, la corruzione endemica al sistema politico-economico russo. Dall’altro, la crisi economico-finanziaria del 2008. Quest’ultima stroncò la crescita del PIL, che per otto anni aveva continuato a salire arrivando a una crescita dell’8,5% nel 2007, e gettò la Russia in una fase di stagnazione da cui si deve ancora riprendere.

Fonte: Dima Slavin
Altri due tentativi: i “May Decrees” del 2012 e del 2018
Nel 2011, Putin, al tempo primo ministro nella breve parentesi della presidenza Medvedev, incaricò la Higher School of Economics e l’Accademia presidenziale nazionale di economia e pubblica amministrazione di mettere a punto una “strategia 2020”. Ciò si tradusse nei cosiddetti “May Decrees”, o “Decreti di maggio” (“mayskie ukazy” in russo), approvati il 7 maggio 2012. Questo programma prevedeva una riforma economica su larga scala che potesse attirare investimenti e condurre a un’ulteriore liberalizzazione dell’economia.
Questi Decreti, tuttavia, non furono sufficienti a riportare a galla l’economia. Al contrario, dopo un paio d’anni di turbolenze in reazione allo shock finanziario, la stagnazione riprese ufficialmente piede nel 2013, anno in cui il tasso di crescita del PIL calò a un misero 1,8%. Nello stesso periodo, si esaurì definitivamente il boom petrolifero che manteneva in piedi la precaria economia russa, e Putin dovette affrontare i suoi problemi strutturali.
L’economia russa, infatti, è interamente basata sulle risorse naturali, in particolare petrolio e gas: ciò la rende instabile e fortemente soggetta agli andamenti del mercato globale. Inoltre, la corsa al profitto, coniugata con la capillarità della corruzione e l’incremento dei conflitti fra diversi gruppi di interesse nel Paese, rendono il business delle risorse naturali particolarmente insidioso.
Dopo il collasso degli anni Novanta, il boom petrolifero dei primi Duemila e la stagnazione dal 2013 in poi, la Russia oggi sta cercando di entrare in una nuova fase di trasformazione. Un secondo ciclo di Decreti è stato promulgato nel 2018, insieme a 12 “progetti nazionali” incentrati su investimenti pubblici, anziché privati o esteri. Si tratta dell’ultimo tentativo da parte di Putin di creare un nuovo modello economico incentrato sull’offerta verso investitori stranieri (export-driven), anziché sulla domanda interna (consumption-driven) che aveva guidato la crescita del decennio precedente.
Questo piano include un aumento della spesa pubblica fino al 2024 per infrastrutture, sanità e istruzione pari all’1,1% del PIL, un aumento dell’IVA per finanziare queste spese e la controversa riforma delle pensioni.
Tuttavia, questi provvedimenti potrebbero rivelarsi problematici. Se da un lato possono teoricamente portare a una ripresa, dall’altro sono estremamente impopolari e rischiano di minare il regime personalistico di Putin. Analogamente, anche le soluzioni proposte nel corso degli anni alla Russia dal FMI, finalizzate a rialzare l’economia nazionale, possono essere rischiose. Ulteriori tagli alla spesa pubblica aumenterebbero il malcontento popolare e minerebbero la base di consenso di Putin. La riorganizzazione della gestione delle risorse statali invece minaccerebbe le posizioni di rilievo di magnati e oligarchi, il cui favore è fondamentale per la stabilità del suo potere.

Andamento della crescita del PIL in Russia (%). Fonte: World Bank
Le spese militari
Se si parla di budget e politiche economico-finanziarie, è indispensabile menzionare gli abbondanti fondi destinati da Putin alle spese militari dal 2012 in poi. La modernizzazione dell’apparato militare russo fu una priorità assoluta nel terzo mandato presidenziale di Putin, tanto da spingerlo al conflitto con l’ex ministro delle finanze Aleksey Kudrin. Kudrin aveva rivestito la carica dal 2000, giocando un ruolo chiave nella riabilitazione del bilancio russo grazie alle sue politiche prudenti. Tuttavia, le sue posizioni contrarie alle ingenti spese militari lo spinsero alle dimissioni nel 2011.
Le spese militari sono dunque gradualmente aumentate dal 2,5% al 3,1% del PIL, fino a raggiungere un picco del 5,4% nel 2016 . Mentre le spese per istruzione, sanità e sicurezza diminuivano dello 0,1-0,3% ciascuna. A partire dal 2017, tuttavia, Putin ha invertito il trend, poiché “la modernizzazione militare è stata ultimata”, e i fondi per l’esercito sono stati quindi dimezzati per lasciare spazio ad altre spese sociali.

Spesa dedicata al militare in Russia (% del PIL). Fonte: World Bank
Le sanzioni
Le sanzioni imposte dall’Unione Europea alla Russia in seguito alla crisi di Crimea del 2014 hanno avuto un esito ambivalente all’interno della Federazione. Secondo i rapporti del FMI, nonostante abbiano colpito in modo significativo il settore import-export, le sanzioni hanno avuto un effetto marginale, andando a ridurre il PIL solo dell’1%.
D’altro canto, le sanzioni hanno indirettamente incoraggiato la “svolta a Est” che Putin persegue già da diverso tempo. Infatti, sono incrementati i rapporti commerciali con la regione dell’Asia-Pacifico e con i Paesi ex-sovietici dell’Asia Centrale. Inoltre, le sanzioni hanno innescato meccanismi di protezione, come la stabilizzazione delle riserve monetarie a opera della Banca centrale russa. Pertanto, mentre la loro efficacia punitiva è ancora oggetto di discussione, resta difficile sostenere che le sanzioni dell’UE abbiano avuto pesanti ricadute negative sull’economia russa.
Conclusioni
Nel ventennio di Putin, l’economia russa ha attraversato sostanzialmente due fasi. La prima, dal 2000 al 2008, di grande crescita e ripresa economica, e di ingresso ufficiale sulla scena globale. La seconda, dal 2013 in poi, è una fase di stagnazione, a cui le numerose iniziative e riforme non sono ancora riuscite a ovviare.
Putin ha semplificato il sistema di tassazione e ha portato avanti politiche di privatizzazione e di sviluppo delle infrastrutture finanziarie, tentando di ristrutturare sia la governance delle partecipate pubbliche che la legislazione sulla corporate governance privata. Nelle politiche economiche del governo, si è rivelata centrale anche l’apertura agli investimenti diretti stranieri. Questo in concomitanza con il tentativo di ridurre la fuga di capitale, grazie alla creazione di strutture più efficaci e al progressivo ingresso nel commercio internazionale.
Tuttavia, la totale dipendenza da fattori esterni – come il prezzo del petrolio – e la dipendenza dall’esportazione di risorse naturali hanno fortemente influenzato l’andamento economico della Russia. Inoltre, il regime di Putin continua a sorreggersi su meccanismi di favoritismo che hanno radici nelle compagnie energetiche e nelle risorse statali.
Allo stesso modo, il consenso popolare verso il regime è appeso al filo di precise politiche socioeconomiche, che non lasciano ampi margini di manovra per delle riforme strutturali. Pur essendo una potenza mondiale che riveste un ruolo chiave nel mercato energetico globale, l’economia russa resta soggetta a limitazioni che la tengono ancorata a un ruolo sempre più marginale.
Fonti e approfondimenti
Aris Ben, Tkachev Ivan, 20 Years of Russia’s Economy Under Putin, in Numbers, The Moscow Times, 19/08/2019
Bershidsky Leonid, , Putin Can’t Afford to Speed Up Russian Economy, The Moscow Times, 5/08/2019
Di Bella, G., Dynnikova, O., Grigoli, F., Fiscal Federalism and Regional Performance, International Monetary Fund, 2017
Aleksashenko, S., Russia’s Economic Agenda to 2020, International Affairs (Royal Institute of International Affairs 1944-), Vol. 88, No. 1, January 2012
Vasiliev, S.A., Overview of Structural Reforms in Russia after 1998 Financial Crisis, International Monetary Fund, 2000