Se Russia e Cina rappresentano le due principali sfide internazionali che affronterà la nuova amministrazione Biden, insieme probabilmente alla questione europea, il Medio Oriente rimarrà comunque il terzo scenario globale, una diversione di energie per la super potenza.
In questo quadrante, che dal Marocco si allunga fino a parte del Pakistan, nelle carte degli uffici della CIA, dipartimento di Stato e presidenza, gli obiettivi e le strategie rimarranno sempre gli stessi. Il primo a professare l’abbandono del Medio Oriente è stato Barack Obama, lanciando la dottrina “Pivot to Asia”, e da quel momento la regione non è mai tornata in auge. Biden, come ha fatto Trump, punterà di nuovo su scelte tattiche e strategiche conservative, volte più a coinvolgere i proprio alleati e a operare per procura piuttosto che su diretti coinvolgimenti.
Dato lo spostamento di asse dal Golfo Persico al Mar Cinese Meridionale avvenuto all’incirca nei primi dieci anni del secolo, l’azione statunitense ha iniziato a seguire dei postulati. I principi che guidano la proiezione statunitense nel Vicino Oriente sono tre. Il primo è l’equilibrio di potenza. Nessun attore regionale deve essere in grado di dominare la regione. Un obbligo che nel tempo si è trasformato in qualcosa di più: “Nessun attore regionale deve essere totalmente indipendente da Washington”. In questo modo gli Stati Uniti sono i fattivi padroni di tutto.
Per anni lo sfidante principale di questo principio è stato l’Iran. Non solo per la longa mano che da Teheran si allungava lambendo il territorio degli alleati degli Stati Uniti, ma anche per il principio stesso che la Repubblica Islamica dell’Iran rappresentava. A Teheran infatti, fin dal tempo di Khomeini, si professava l’indipendenza del Paese. Per essere realmente liberi bisogna essere indipendenti dai grandi centri di potere. Nel tempo, questo ha portato l’Iran a creare i propri missili, i propri droni, la propria tecnologia nucleare e ciò ha permesso al Paese di resistere negli anni della maximum pressure statunitense. Teheran, comunque, attualmente è solo l’ombra di quello che era quattro anni fa, ma una nuova minaccia si erge davanti alla volontà degli USA che non ci sia nessun attore egemone nella regione: la Turchia. Seguendo la stessa parabola, anche Ankara sta cercando l’indipendenza, grazie soprattutto al flusso di denaro proveniente dal Qatar. Le sanzioni alla Turchia di questi giorni sono il simbolo di una nuova postura più ostile verso l’alleato-non-alleato della Nato, che però potrebbe essere allo stesso tempo utile all’alleanza atlantica. Washington deve rimettere Erdogan al proprio posto senza scordarsi del prezioso lavoro che fa nel contenere la Russia nel Mar Nero e nel Caucaso. La nuova amministrazione dovrà bilanciare le proprie mosse senza inficiare le priorità strategiche verso Mosca per dare precedenza a quelle mediorientali.
Il secondo principio è la garanzia energetica dei propri alleati e il controllo sul flusso che rifornisce i propri avversari. Da quando gli USA hanno capito di poter essere indipendenti energeticamente hanno dovuto però ricordarsi che questo non è vero per i proprio alleati e, soprattutto, per i propri nemici. Controllare gli stretti di Hormuz (Golfo Persico) e Bab El Mandeb (Golfo di Aden) e avere una voce in capitolo sulle valvole degli oleodotti mediorientali è qualcosa che nessuno a Washington vuole vedersi tolta. In un’ipotetica guerra o confronto freddo con Pechino, questo potere farebbe una grande differenza. Assetare la Cina chiudendo il rifornimento che dai Paesi mediorientali sostiene il potente sistema industriale cinese è un asset troppo importante. Per questo motivo, Biden dovrà continuare a coltivare le relazioni con i potenti signori del petrolio, senza esserne però direttamente dipendente, ma sapendo che sono una spina nel fianco del proprio nemico.
Per lo stesso motivo, la nuova amministrazione dovrebbe mettere in campo anche una strategia per sabotare i piani cinesi di raggiungere l’Iran e i suoi campi petroliferi attraverso le steppe dell’Asia. A questo serve lo scenario afghano: mentre da una parte a Washington si spera di raggiungere una tregua con i Talebani, si pensa anche che in fondo, un Paese troppo stabile in quell’area, e alla disperata ricerca di fondi, non sarebbe molto utile. È meglio che i Talebani continuino a destabilizzare lo Stato afghano, così che i cinesi non si decidano ad attraversarlo.
L’ultimo principio che guida la mano statunitense e che guiderà quella di Biden è legato proprio alla sicurezza. Bisogna assicurarsi che la minaccia terroristica, jihadista e non, che negli ultimi venti anni ha messo in difficoltà Washington, non sia troppo forte, oppure resti ben confinata all’interno della regione. Per questo continuano gli attacchi con i droni e per questo le truppe speciali non escono dalla Siria o dall’Iraq.
Biden, oltre a questi principi, dovrà occuparsi anche di altre spinose questioni per le quali cercherà principalmente di evitare di spendere troppe energie e fondi.
Israele, il ruolo che avrà, e il rapporto con i Paesi arabi sono temi centrali in questo senso. Mentre infatti si afferma la “pace di Abramo” (sono così chiamati gli accordi tra Israele e i Paesi arabi vista la comune discendenza da Abramo), Biden dovrà capire cosa questo vuole dire e come dovrà essere rimodulato. È necessario che ambedue continuino ad essere dipendenti da Washington ma senza sfiancare le parti con troppe richieste o inutili scontri tra loro.
L’Iran è la nuova sfida ma potrebbe anche essere un’opportunità. Biden ha già trattato con Teheran ed è conscio di quanto possa usare questo trascorso per guidare il rapporto sia tra Israele e Stati Arabi, sia con la Turchia. Un accordo è conveniente per tutti, soprattutto sapendo che l’Iran non è più un reale aspirante all’egemonia regionale.
Tutti gli altri scenari servono solo nella misura in cui garantiscano i tre principi. Da notare l’assenza della Palestina e del Nord Africa dalle mosse della nuova amministrazione. Qui l’interesse statunitense c’è solo nella misura in cui nessuno possa farsi egemone ma in queste due battaglie nessun Paese può diventarlo e, di conseguenza, possono essere dimenticate dalla superpotenza, che ha troppo di cui preoccuparsi con l’ascesa di Pechino.
Fonti e approfondimenti
Cook S. A., “No Exit Why the Middle East Still Matters to America”, Foreign Affairs, novembre/dicembre 2020
Catalano Ewers E., Goldenberg I. & Thomas K., “On Iran, the Next Administration Must Break With the Past”, Foreign Affairs, 01/10/2020
Burns W. J. & Thomas-Greenfield L., “The Transformation of Diplomacy”, Foreign Affairs, novembre/dicembre 2020
Editing a cura di Cecilia Coletti