La tensione tra ideali e realpolitik del Sudafrica di Ramaphosa

Il presidente del Sudafrica Ramaphosa durante un discorso
@Marcos Corrêa/PR - Flickr - Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)

Nel corso dell’ultimo decennio, il prestigio del Sudafrica sulla scena internazionale è stato gradualmente eroso da una combinazione di fattori interni: disordini politici e sociali, un declino relativo della potenza economica e militare, reazioni e violenze xenofobe all’immigrazione da altri Paesi africani e scandali di corruzione che hanno travolto il governo nel 2018. Il secondo mandato della presidenza Zuma (2014-2018) ha segnato l’apice della crisi di credibilità del Sudafrica, a cui veniva riconosciuto, dalla fine dell’apartheid, il ruolo di “Stato guida” nella regione e nel continente.

In seguito alle dimissioni di Zuma, nel febbraio del 2018, la nomina di Cyril Ramaphosa alla massima carica dello Stato ha alimentato la speranza di un ritorno ai valori cardine della politica estera di Mandela: promozione della democrazia e dei diritti umani, solidarietà tra le nazioni oppresse, dialogo multilaterale, cooperazione Sud-Sud e ricorso alla diplomazia per risolvere i conflitti.

Ramaphosa ha dimostrato, negli ultimi tre anni, un approccio certamente pragmatico, solo in parte ispirato ai valori fondativi sopra accennati. Se i discorsi ufficiali abbondavano di riferimenti alla tutela della democrazia e dei diritti umani, il perseguimento di questi ideali è rimasto in larga parte subordinato alle ragioni di Realpolitik. A causa inoltre delle pressanti questioni interne, la proiezione internazionale del Sudafrica ha restituito un’immagine sbiadita rispetto al passato. Eppure rimane innegabile che si sia, se non invertita, quantomeno deviata la tendenza rispetto alla precedente amministrazione.

Le pressioni interne

La scelta di Ramaphosa quale successore di Zuma esprimeva non solo la presa di distanza della maggioranza del partito dalla linea politica e dalla famiglia dell’ex-presidente. Ramaphosa sembrava incarnare la figura che avrebbe riabilitato l’immagine dell’African National Congress (ANC), perseguendo politiche di contrasto alla corruzione, e che avrebbe guidato il Paese nella delicata transizione politica ed economica. In questo senso, le sue credenziali di imprenditore di successo e politico rispettato sarebbero state utili al risanamento economico del Paese e al recupero della credibilità persa negli ambienti internazionali. 

Tra il gennaio 2019 e il febbraio 2021 si è concretizzata una grande opportunità per recuperare il terreno perso nei consessi panafricani e internazionali. In questo periodo, infatti, il Sudafrica ha esercitato contemporaneamente il mandato di presidenza dell’Unione Africana e, per la terza volta nella sua storia, ha occupato un seggio non-permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. 

Ciononostante, la difficile situazione interna ha nei fatti rallentato, circoscritto e in parte inficiato la proiezione strategica del Sudafrica. Prima ancora che la crisi economica e sanitaria provocata dal Covid-19 si abbattesse sul Paese, l’economia mostrava già segnali di cedimento e stagnazione. Nell’ultimo quadrimestre del 2020, il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 32,5%, il valore più alto mai registrato dal 2008; mentre fra i 15 e i 24 anni si è attestato al 63%, forte indicatore della scarsa mobilità intergenerazionale e della mancanza di prospettive per i giovani. L’aumento del deficit di spesa, dal 6,3% del 2019 al 14% del 2020, ha posto inoltre una grave ipoteca sulle finanze dello Stato: si prevede infatti che il debito pubblico, che oggi ammonta a circa l’80% del Prodotto interno lordo, arriverà a eguagliare il PIL entro il 2026.

A causa delle preesistenti pressioni economico-sociali, ulteriormente inasprite dall’impatto del Covid-19, le questioni di politica interna hanno assunto la priorità nell’allocazione di risorse umane e materiali del governo, provocando di riflesso un minor coinvolgimento in politica estera. Tra gli indicatori di questa tendenza troviamo la netta riduzione di truppe impiegate sul continente in missioni di peacekeeping, iniziata con Zuma e proseguita con Ramaphosa, per un calo del numero di forze impiegate di circa il 50% in soli nove anni (da 2173 nel 2013 a 1088 dei primi mesi del 2021).

Quiet diplomacy e diritti umani: la tensione tra ideali e realtà

Dopo la caduta del regime di apartheid, le amministrazioni di Nelson Mandela (1994-1999) e Thabo Mbeki (1999-2008) si erano messe all’opera per riabilitare e consolidare l’immagine internazionale del Sudafrica. Mantenendo una posizione indipendente dagli schieramenti internazionali, Pretoria doveva assumersi la responsabilità di promuovere la riforma dell’ordine mondiale, al fine di assicurare una maggiore rappresentanza del Sud globale. La bussola della sua azione internazionale doveva orientarsi alla promozione della democrazia e alla tutela dei diritti umani

Sotto la presidenza Zuma, Pretoria ha però ridefinito le sue priorità di politica estera in termini più restrittivi, di mero interesse nazionale, abbandonando gran parte degli sforzi per una revisione dello status quo internazionale. Anche il riferimento ai diritti umani è caduto nell’oblio, sino al punto che il Sudafrica ha mantenuto rapporti cordiali con governi che, in patria, violavano apertamente le più basilari tutele democratiche. Quando, per esempio, Omar al-Bashir, l’ex presidente del Sudan, su cui pendeva un mandato di cattura internazionale, si è recato in visita a Johannesburg, nel 2015, Zuma si è rifiutato di farlo arrestare e poco si è preoccupato del danno di immagine che questo gli avrebbe comportato. Allo stesso modo, nel dicembre 2017, quando il Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU ha votato una risoluzione che condannava il governo militare birmano per le violenze commesse nei confronti della minoranza musulmana Rohingya, il Sudafrica di Zuma è stato tra i pochi Paesi ad astenersi. 

Negli ultimi tre anni, Ramaphosa ha cercato di riesumare la vocazione internazionale del Sudafrica, rispolverando la parola d’ordine della “quiet diplomacy, una concezione della diplomazia che si sviluppa sottotraccia e che si avvale primariamente dei canali di partenariato multilaterale, come la South African Development Community (SADC)

L’approccio ha riscosso un primo successo nel calmare le tensioni politiche in Madagascar. Nel luglio 2018, il neo-eletto presidente Ramaphosa è riuscito, infatti, agendo nella cornice della SADC, a convincere l’ex-presidente malgascio Rajaonarimampianina ad accettare la partecipazione elettorale dei due principali rivali politici, Andry Rajoelina (attuale presidente) e Marc Ravalomanana.

L’espressione “quiet diplomacy” è stata altresì spesso utilizzata per descrivere il rapporto del Sudafrica con lo Zimbabwe, radicato all’epoca in cui l’ANC e la ZANU, i movimenti di liberazione oggi al potere nei rispettivi Stati, erano uniti nella lotta al colonialismo occidentale. 

Dopo aver tollerato il colpo di stato che nel 2017 ha deposto Mugabe e le elezioni fortemente contestate dell’anno seguente, che hanno confermato al potere il generale Mnangagwa, la posizione del Sudafrica si è fatta più assertiva allo scatenarsi delle repressioni politiche. Nel 2020, Pretoria ha avviato un dialogo con le opposizioni interne dello Zimbabwe, iniziativa che ha irrigidito i rapporti tra i due Stati. Il Sudafrica, che ospita entro i suoi confini una forte comunità di espatriati zimbabwani, non può certo permettersi il collasso interno dello Zimbabwe, ma allo stesso tempo manca delle risorse necessarie per intervenire efficacemente. L’approccio cauto e attendista rispecchia i limiti interni dell’attuale politica estera sudafricana. 

La relazione con Mosca e Pechino

Al di fuori del continente, l’approccio alle relazioni internazionali è stato marcato, sin dalla presidenza Mbeki, da un certo scetticismo nei confronti delle iniziative occidentali e, di riflesso, da un rafforzamento del dialogo con Mosca e Pechino. L’adesione nel 2010 al forum dei Paesi BRICS, che riunisce Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, è stata conseguentemente interpretata come una forma di opposizione alla diplomazia occidentale a guida statunitense.

Sebbene con Ramaphosa si sia ammorbidita la posizione anti-occidentale all’interno del partito, il rapporto con Cina e Russia non è mai stato messo in discussione. D’altronde, la Cina rappresenta di gran lunga il primo partner commerciale del Sudafrica, in grado di assorbire da sola circa l’11% delle sue esportazioni e di provvedere al 18% delle importazioni sudafricane. 

Il rapporto tra l’ANC e Mosca risale invece ai tempi della Guerra Fredda, quando l’Unione Sovietica figurava tra i pochi sostenitori della lotta di liberazione contro il regime di apartheid. Così come i suoi predecessori, anche Ramaphosa ha coltivato buoni rapporti con il governo di Putin, come attestano i numerosi incontri tra i due leader e il rinnovo degli accordi di cooperazione tecnica ed economica, nel quadro della quattordicesima sessione del Russia-South African Joint Intergovernmental Committee on Trade and Economic Cooperation (ITEC).

Quando, nel 2019, l’esito del voto presidenziale nella Repubblica Democratica del Congo è stato messo in discussione da diversi osservatori internazionali, nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU il Sudafrica di Ramaphosa si è unito a Cina e Russia nel difendere la legittimità del presidente in carica Tshisekedi. Considerato che da tempo Pretoria nutre forti interessi economici e politici nella Repubblica Democratica del Congo, dove sono concentrate tutte le sue forze di peacekeeping, la sensibilità per il rispetto dei valori democratici e dei diritti umani appare ancora oggi altalenante, modulabile a seconda delle convenienze e dell’entità dei legami politici ed economici

La strada per recuperare la credibilità e la fiducia riposta nella guida del Sudafrica è ancora lunga. Sebbene la figura di Ramaphosa abbia in parte risollevato l’immagine del Paese, il riferimento ai diritti umani è risultato essere più uno strumento di soft power che un modello coerente di comportamento sulla scena internazionale. Complice la pandemia da Covid-19, il Sudafrica dovrà prima fare i conti con i suoi problemi interni per poter efficacemente proiettare la sua forza all’esterno.

 

 

Fonti e approfondimenti

South Africa’s foreign policy under Ramaphosa“. 2021. Strategic Comments. 27(2): VII-IX. 

Hendrick, Cheryl. Majozi,Nkululeko. 2021. “South Africa’s International Relations: A New Dawn?“. Journal of Asian and African Studies. 56(1): 64-78. 

Robert Shivambu, “After disastrous Zuma years, Ramaphosa must provide foreign policy clarity, Mail & Guardian, 20/05/2020.

Peter Fabricius, “Can Ramaphosa revitalise South Africa’s foreign policy?, Institute for Security Studies (ISS). 

Cyril Ramaphosa – South African union leader, mine boss, president, BBC News, 24/05/2019.

Danny Bradlow, “How values, interests and power must shape South Africa’s foreign policy, The Conversation, 25/11/2020. 

James Hamill, “The reality of South Africa’s foreign policy under Ramaphosa“, International Institute for Strategic Studies, 08/02/2019. 

Liesl Louw-Vaudran, “Ramaphosa’s quiet diplomacy in Madagascar, Institute for Security Studies, 27/07/2018. 

 

 

Editing a cura di Niki Figus

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