Polveriera etiope: a un anno dallo scoppio del conflitto

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

A un anno di distanza dallo scoppio del conflitto, ci ritroviamo ancora a parlare di Etiopia e di Tigray. La guerra, che sembrava conclusa lo scorso novembre, è oggi più accesa che mai. Cosa è successo nel frattempo? Perchè si continua a combattere? Qual è la posta in gioco? Nel rispondere a queste domande, ci riserviamo il privilegio di procedere lenti, per esaminare una questione complessa sotto diverse prospettive. Questo è ciò che cercheremo di fare in questa serie di articoli dedicati alla guerra nel Tigray. Lo scopo è restituire almeno una parte della complessità e delle dimensioni di un conflitto che rischia di portare al collasso l’Etiopia, stravolgere i fragili equilibri regionali e ripercuotersi sulle politiche delle medie e grandi potenze.

Le tanto attese elezioni

Dopo le elezioni del 2005, caratterizzate da violenze e arresti politici, in Etiopia non si sono più tenute vere e proprie elezioni multipartitiche. Per quasi quindici anni, gli unici a occupare il parlamento federale sono stati i membri e gli alleati della coalizione al governo, l’Ethiopian people’s revolutionary democratic front (EPRDF). Le elezioni generali del 2020 avrebbero dovuto segnare una svolta in senso democratico. Inizialmente previste per il 29 agosto 2020, sono state posticipate tre volte, fino al 21 giugno di quest’anno. Nel frattempo è scoppiata una guerra nella regione settentrionale del Paese, il Tigray, e si sono riaccese proteste, violenze e tensioni in ogni angolo della federazione etiope. 

Lo scorso 4 ottobre, Abiy Ahmed, leader del Prosperity Party, ha pronunciato nella capitale Addis Abeba il discorso di inaugurazione del nuovo governo, il primo dopo la dissoluzione dell’EPRDF. Nonostante, almeno formalmente, questo sia il risultato della prima libera elezione dal 2005, il processo elettorale è stato ben lontano dal soddisfare gli standard di un Paese democratico. 

In un quinto delle circoscrizioni elettorali, il voto ha subìto ulteriori ritardi a causa di violenze e problemi logistici. Nella regione del Tigray, sotto isolamento e devastata dal conflitto, nessun cittadino si è recato alle urne, mentre una parte dell’opposizione ha boicottato le elezioni a causa del clima di persecuzione politica

Il Prosperity Party, partito del Primo ministro uscente, ha conquistato 410 seggi sui 436 contesi, mentre i primi partiti di opposizione, il National movement of Amhara e l’Ethiopian citizens for social justice, ne hanno ottenuti nove in tutto. 

Ora che Abiy Ahmed ha consolidato la sua posizione al governo, stiamo assistendo a una escalation del conflitto nel Tigray. Dato il suo alto costo politico ed economico, Abiy intende risolvere la questione tigrina definitivamente, al costo di guidare personalmente l’esercito in battaglia. Consapevole che a pagarne le conseguenze sarà la popolazione civile.

 

Uno scontro sul futuro dell’Etiopia

A preparare il terreno per lo scontro, nel marzo 2020, era stata la scelta di posticipare le elezioni attese per agosto a causa dell’emergenza sanitaria. La decisione era stata rigettata dalle autorità regionali tigrine, considerata una violazione della sovranità regionale, nonché una prosecuzione illecita del mandato costituzionale del Primo ministro. Lo stato del Tigray ha quindi provveduto a organizzare autonomamente le elezioni regionali e, con il 98,2% delle preferenze, lo storico Tigray people’s liberation front (TPLF) è stato riconfermato al potere.

L’operazione militare condotta nel Tigray dall’Ethiopian national defence force (ENDF), iniziata nel novembre 2020, era stata concepita per essere una spedizione rapida e risolutiva. Mirava a ristabilire l’ordine in una regione dissidente, presieduta da un governo regionale non riconosciuto da Addis Abeba, che aveva attaccato per primo, colpendo basi militari nel nord del Paese. In sole tre settimane, l’ENDF aveva ripreso il controllo di gran parte della regione, compresa la capitale del Tigray, Mekelle, roccaforte dei ribelli. 

A dicembre, secondo le dichiarazioni delle autorità federali, le ostilità erano concluse. L’obiettivo primario dell’operazione, ripristinare la legalità, era stato raggiunto: il TPLF era sconfitto; i suoi membri, dichiarati terroristi, erano in ritirata o in prigione. Si pensava che l’arresto dei ribelli che mancavano all’appello, tra cui il leader Debretsion Gebremichael, sarebbe seguito a breve. Eppure da un anno si continua a combattere. Quella che doveva essere una semplice “operazione di polizia” si è rivelata essere la più grande sfida al progetto statale del Primo ministro Abiy Ahmed.

In un certo senso, ciò che sta succedendo si può considerare una resa dei conti tra i nuovi e i vecchi dominatori del Paese. Il TPLF ha governato l’Etiopia per quasi trent’anni, dai primi anni Novanta fino al 2018, anno in cui ha perso la supremazia all’interno della coalizione di governo, l’EPRDF. La nomina di Abiy Ahmed alla guida della coalizione nel marzo 2018 ha comportato lo spostamento del baricentro politico della federazione etiope. Di madre amhara e padre oromo, Abiy pareva incarnare le speranze delle etnie maggioritarie del Paese per una maggiore rappresentatività politica. 

L’establishment tigrino, espressione di appena il 7% della popolazione etiope, è stato così progressivamente estromesso dalle principali posizioni di potere. Un anno dopo, tre dei membri della vecchia coalizione di governo, l’Amhara democratic party (ADP), l’Oromo democratic party (ODP) e il Southern ethiopian people’s democratic movement (SEPDM) sono confluiti nella nuova creatura di Abiy Ahmed: il Prosperity Party

Il conflitto sottende due concezioni agli antipodi sul futuro dello Stato etiope. Da una parte, la difesa dell’impianto etnofederalista della federazione, plasmato dal TPLF dopo la caduta del regime del Derg, che sancisce l’uguaglianza degli Stati regionali organizzati su base etnica e la loro autonomia locale. Caso più unico che raro, l’articolo 39 della Costituzione etiope prevede la possibilità per gli Stati regionali di indire un referendum per proclamare la secessione. 

Dall’altra parte, il sogno unitario e panetiope custodito nel Prosperity Party che dopo la dissoluzione dell’EPRDF, nel dicembre 2019, è diventato il partito di governo. Ispirato al concetto di medemer (“unione, riconciliazione”), il partito di Abiy mira al superamento dell’etnonazionalismo, in favore di un accentramento dei poteri e della creazione di un’identità nazionale che trascenda le appartenenze etniche e regionali. Con l’intervento nel Tigray, Abiy Ahmed ha messo in chiaro che chi non aderirà al nuovo progetto statale sarà ricondotto all’obbedienza con la forza.

 

La situazione sul campo

Dopo la conquista di Mekelle da parte delle forze federali nel novembre 2020, la guerra non è mai realmente finita. Semplicemente è diminuita di intensità, uscendo dai radar della stampa internazionale. Nel frattempo, i ribelli tigrini hanno cercato di riorganizzarsi, approfittando dell’allontanamento dall’esercito federale di un gran numero di ufficiali tigrini che hanno allargato le file del TPLF dopo lo scoppio del conflitto. 

Data la sproporzione dei mezzi e delle forze militari, unita al dominio dei cieli esercitato dal governo federale, la soluzione più naturale – per un partito che già negli anni Settanta teneva testa al regime militare del Derg – era tornare al passato, rispolverando le vecchie tattiche di guerriglia.

Col passare dei mesi, complice la stagione delle piogge, la pressione del governo sul Tigray si è affievolita. Sfumata l’idea di una guerra lampo, Abiy Ahmed ha dovuto fare i conti con la prospettiva che l’instabilità tigrina si riversasse nelle regioni confinanti. Tale prospettiva si è concretizzata all’inizio di quest’anno, quando il TPLF, cercando di sfondare il blocco degli aiuti e dei rifornimenti, ha cominciato a fare incursioni nelle regioni Afar e Amhara. 

Nel frattempo, la popolazione, piombata nel più profondo isolamento, non riceveva cibo, cure mediche e servizi di base da novembre. Cedendo alle pressioni della comunità internazionale che invocava l’apertura di corridoi umanitari per soccorrere la popolazione, il governo ha deciso il 28 giugno di ritirarsi per tre mesi. Pochi giorni dopo la dichiarazione unilaterale di “cessate il fuoco”, i ribelli tigrini sono rientrati a Mekelle, accolti come liberatori dalla popolazione civile.

Già impegnato nell’organizzazione logistica dell’enorme macchina elettorale, il governo ha dovuto invece fare i conti con gli effetti collaterali del conflitto: tensioni sociali e violenze interetniche in aumento in ogni angolo della federazione. 

Quando in settembre la tregua è finita, Addis Abeba ha ripreso l’iniziativa, con l’obiettivo di ricacciare indietro i ribelli dalle posizioni conquistate. A guidare l’offensiva sono state principalmente le forze di sicurezza regionali e le milizie paramilitari, a cui il governo federale spesso ha delegato gli scontri sul campo, limitandosi a fornire copertura aerea. Con i bombardamenti lanciati in ottobre sulle principali città tigrine, il Primo ministro ha dimostrato di non aver intenzione di fermarsi fino a che la ribellione non sarà soffocata. 

Il 31 ottobre, in un post pubblicato su Facebook, Abiy Ahmed ha lanciato un appello rivolto a ogni cittadino etiope, chiamato a «usare ogni arma a disposizione» per difendere il proprio Paese e «seppellire» il TPLF, ricordando che ognuno deve essere disposto a morire per il proprio Paese. Il post, rimosso da Facebook per incitazione alla violenza, ha comunque ottenuto l’effetto desiderato: una settimana dopo, decine di migliaia di giovani etiopi hanno risposto alla chiamata, radunandosi nella capitale. Nonostante tutto, i ribelli sono riusciti a mantenere le posizioni, continuando a sconfinare nelle regioni vicine. Il 2 novembre, di fronte all’avanzata dei combattenti tigrini, il Primo ministro ha dichiarato lo stato di emergenza.

La controffensiva del TPLF si muove ora lungo due direttrici principali. A ovest, le forze tigrine si scontrano con le autorità regionali Amhara, che hanno approfittato del confitto per occupare territori a lungo contesi nel Tigray sud-occidentale; a sud-est, il TPLF si muove in direzione dell’autostrada Addis Abeba-Gibuti, arteria commerciale del Paese. Alla fine ottobre, i ribelli hanno catturato le città di Dessie e Kombolcha, a circa 380 km da Addis Abeba.

 

Un conflitto senza vie d’uscita

Il generale delle Forze armate del Tigray, Tsadkan Gebretensae, ha dichiarato alla BBC che i combattimenti non avranno fine, fino a che le condizioni per il “cessate il fuoco” non saranno soddisfatte: la fine del blocco economico e delle telecomunicazioni, e il ritiro di tutte le forze armate non-tigrine dalla regione. 

Ma il margine di negoziazione politica si restringe di giorno in giorno. Per lungo tempo, il TPLF ha invocato l’auto-determinazione all’interno della federazione etiope. Con lo scoppio della guerra e l’aggravarsi della situazione umanitaria, tra i membri del TPLF ha preso piede l’ipotesi della secessione. Ora che la conquista di Addis Abeba è divenuta una possibilità concreta, il TPLF ha riorientato la sua azione militare verso l’abbattimento del regime di Abiy Ahmed. 

Il 5 novembre, il TPLF, l’Oromo liberation army e altre sette forze di opposizione anti-governativa minori si sono riunite sotto l’insegna dello United front of ethiopian federalist and confederalist forces, nel comune sforzo di far cadere il Primo ministro e guidare un governo di transizione. Stanti questi presupposti, nessuna delle due parti pare disposta a fare concessioni: lo scontro è totale. 

La chiamata alle armi lanciata da Abiy Ahmed ha reso ancora più sfumata la linea di demarcazione tra forze combattenti regolari e irregolari. La proliferazione di conflitti interetnici e intercomunitari, unita alla crescente militarizzazione della società etiope, lascia supporre che il TPLF e il Prosperity Party non saranno gli unici soggetti a determinare l’esito del conflitto. 

 

 

Fonti e approfondimenti

Associated Press, Ethiopia PM begins 2nd term saying the war exacts “heavy price”, 4/10/2021.

Vivienne Nunis, Ethiopia: growing concerns for unity as Tigray conflict spreads, BBC, 02/08/2021.

The Guardian, Ethiopia airstrikes target Tigray rebels as aerial campaign continues, 24/10/2021.

Cara Anna, Ethiopia declares immediate, unilateral cease-fire in Tigray, Associated Press, 29/06/2021.

Giulia Paravicini, Dawit Endeshaw, Ethiopia prepares for tense, long-delayed elections, Reuters, 20/06/2021

Maria Gerth, Tension in Ethiopia as Tigrayan forces advance, Deutsche Welle, 07/11/2021. 

Dan Sabbagh, Alliance of Ethiopian factions puts government at risk of overthrow, The Guardian, 05/11/2021.

Tobias Hagmanb, Ethiopia’s civil war: Five reasons why history won’t repeat itself, The Conversation, 21/11/2021.

 

 

Editing a cura di Giulia Lamponi

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