Lo scorso 25 febbraio si sono tenute le elezioni generali in Nigeria, che, per la prima volta dal ritorno del multipartitismo (1999), hanno visto una competizione tra tre nuovi candidati alla presidenza: Bola Ahmed Tinubu dell’All Progressives Congress (APC), il partito al governo dal 2015; Atiku Abubakar del partito di centro-destra People’s Democratic Party e Peter Obi del Labour Party. Con il 36% delle preferenze, avendo inoltre ottenuto il 25% dei voti in almeno 24 Stati, Tinubu si è aggiudicato la maggioranza semplice necessaria per costituire il governo.
Ex-governatore dello Stato di Lagos (1999-2007) e membro di spicco dell’APC, partito del presidente uscente Muhammadu Buhari, Tinubu eredita da quest’ultimo il governo della prima economia africana, un colosso demografico che conta oltre 210 milioni di abitanti, 371 etnie e 525 lingue. Il carico di responsabilità è ulteriormente aggravato dalla crisi securitaria che affligge il Paese e che si compone di tante e diverse sfaccettature, di cui in questo articolo vedremo solo le tendenze principali.
La minaccia jihadista: Boko Haram e l’ISWAP
Nello Stato settentrionale del Borno, nei primi anni Duemila, un giovane predicatore salafita, Mohammed Yusuf, fondò Boko Haram (letteralmente «l’istruzione occidentale è peccato»), con l’obiettivo di abbattere lo Stato secolare nigeriano, fondato su istituzioni politiche ed economiche di matrice coloniale, e istituire nel Nord del Paese un califfato islamico, dove i principi della Sharia fossero pienamente adottati.
Sebbene la Sharia fosse già stata introdotta nel 1999 in dodici Stati del Nord, al fianco delle leggi federali e della Costituzione, Yusuf riteneva necessario eliminare le norme secolari, che secondo lui ne limitavano l’efficacia, e applicare un’interpretazione radicale della legge islamica in tutto il Paese.
Obiettivi perseguiti in modo pacifico almeno fino al luglio 2009, quando, dopo la morte di Yusuf, avvenuta mentre si trovava in custodia della polizia, Boko Haram divenne una vera e propria organizzazione terroristica. Sotto la guida del nuovo leader, Abubakar Shekau, venne adottata una strategia radicale, militarista e internazionale e fu dichiarata guerra allo Stato nigeriano.
Nel 2015, Boko Haram prestò fedeltà allo Stato islamico, assumendo la denominazione di Islamic State’s West Africa Province (ISWAP). Tuttavia, solo un anno dopo, a causa di una frattura ideologica e tattica interna al movimento, una fazione se ne distaccò riprendendo il vecchio nome di Boko Haram.
Pur condividendo l’obiettivo di creare uno Stato islamico nel Nord della Nigeria, Boko Haram e l’ISWAP adottano modalità operative differenti. Se Boko Haram si è a lungo distinto per la brutalità e la violenza indiscriminata dei suoi attacchi, uccisioni, razzie e rapimenti, l’ISWAP preferisce azioni mirate contro specifici obiettivi militari, politici ed economici.
Negli ultimi anni, parallelamente al declino di Boko Haram (accelerato nel 2021 dalla morte di Shekau) è cresciuta la forza dell’ISWAP che ha consolidato la propria presenza nella foresta di Sambisa (fino a quel momento, roccaforte dei rivali) e nelle aree rurali del Nord e del Centro della Nigeria. Oggi, tra i movimenti terroristici, l’ISWAP rappresenta la principale minaccia per la sicurezza del Paese e, con l’ampliarsi dell’area sotto il suo controllo, ha creato una struttura di governance del territorio, che garantisce ai civili libertà di movimento e commercio in cambio del pagamento delle tasse.
Per tentare di respingere o quantomeno contenere l’espansione jihadista, nel 2015, con il sostegno dell’Unione africana (UA), venne istituita la Multinational Joint Task-Force (MNJTF), composta dalle truppe di cinque Paesi dell’area, tutti colpiti dalle violenze: Benin, Camerun, Ciad, Niger e Nigeria. Tuttavia i successi dell’MNJTF sono stati pochi per limiti logistici, di equipaggiamento e addestramento, ma anche per l’intersecarsi del fenomeno jihadista con altre crisi interne ai cinque Paesi, che riducono risorse e forze destinabili all’MNJTF.
A lungo, la postura adottata dall’esercito nigeriano e dai suoi alleati è stata difensiva, a protezione delle principali città, mentre Boko Haram e l’ISWAP controllavano le aree rurali. Solo nell’ultimo anno, i militari hanno adottato un atteggiamento più offensivo, al quale l’ISWAP ha risposto intensificando blocchi stradali e attentati lungo le principali vie di comunicazione e commercio, al fine di isolare economicamente e socialmente il Nord-Est del Paese.
È bene considerare che, sebbene Boko Haram e l’ISWAP si inseriscano in un panorama jihadista internazionale, nascono piuttosto dalle difficoltà economiche e sociali delle regioni settentrionali della Federazione. Per la maggior parte, i potenziali jihadisti sono giovani uomini disoccupati o che vivono di lavori casuali, analfabeti o con un basso livello di istruzione e che provengono dal Nord della Nigeria e dai Paesi confinanti, Camerun, Niger e Ciad.
Di fronte a corruzione diffusa, nepotismo e percezione di abbandono, si sono rivolti a un’interpretazione religiosa radicale, non trovando risposte convincenti nell’Islam tradizionale. In questo contesto, i movimenti jihadisti trovano terreno fertile per fare proselitismo, offrendo una condizione di maggiore sicurezza economica e la possibilità di articolare la propria protesta nei confronti del sistema politico e socioeconomico attraverso una violenza che si ammanta di legittimità ideologica e religiosa.
La competizione per le risorse tra agricoltori e allevatori
In Nigeria, così come in diversi Stati dell’Africa centrale e occidentale (Burkina Faso, Niger, Mali, Ciad e Repubblica Centrafricana per citarne alcuni), la conflittualità tra allevatori nomadi e agricoltori sedentari è un fenomeno con profonde ramificazioni e ripercussioni su politica, società ed economia del Paese.
Se all’origine del problema permane la competizione per risorse scarse (terra, acqua, bestiame), oggi questa, intrecciandosi a dinamiche di tensione sociale, povertà, isolamento e degradazione ambientale, tende a scivolare più facilmente rispetto al passato nello scontro armato. Nelle regioni centrali e settentrionali della Nigeria, la violenza che coinvolge questi gruppi rappresenta una minaccia alla sicurezza non più trascurabile per il governo federale, con cui Tinubu dovrà necessariamente fare i conti nel corso del suo mandato.
Se tutt’oggi, in Africa occidentale, la stragrande maggioranza delle contese tra agricoltori e allevatori è risolta pacificamente, i casi di degenerazione delle dispute in conflitti armati si sono moltiplicati negli ultimi anni. Ma la complessità del fenomeno ci mette in guardia contro l’ipotesi di derubricarlo a mero scontro etnico tra comunità rurali hausa e allevatori nomadi fulani.
La difficoltà di trovare una mediazione tra gruppi di diversa etnia, lingua e religione, anche considerando i tentativi di strumentalizzazione da parte di attori esterni, non basta a spiegare come mai le contese sulla proprietà e l’uso della terra si trasformino, oggi con maggiore frequenza e intensità, in conflitti armati.
Tra i fattori che incidono sull’aggravarsi della situazione, menzioniamo, senza pretesa di esaustività: la pressione demografica, legata all’aumento della popolazione rurale e all’estensione delle terre destinate alla coltivazione; la degradazione ambientale e gli effetti del cambiamento climatico, che portano alla desertificazione e all’erosione delle aree prima destinate al pascolo; l’isolamento delle regioni rurali del Paese; la larga circolazione di armi; la corruzione degli apparati federati e federali; e il radicamento di gruppi terroristici di matrice islamica, che ha accentuato l’isolamento di alcune comunità, portato altre al trasferimento coatto, altre ancora a uno stato di insicurezza permanente.
In risposta all’aumento delle violenze, il governo federale di Buhari ha promulgato nel 2019 il National Livestock Transformation Plan, con l’obiettivo di promuovere la «coesistenza pacifica tra agricoltori e allevatori», favorire lo sfruttamento sostenibile delle risorse e creare nuovi posti di lavoro (secondo le previsioni governative, 300 mila nei primi tre anni).
Il Piano prevede l’istituzione di quattro diverse categorie di ranch (per greggi da 30, 50, 150 e 300 unità) destinati alla sistemazione delle comunità di pastori, che vengono quindi incentivate ad abbandonare il proprio stile di vita per un’esistenza sedentaria in riserve di proprietà dello Stato. Alle comunità “convertite” verrebbe assicurata la fornitura di acqua, terre e sementi, oltre a finanziamenti per l’acquisto di macchinari agricoli erogati dallo Stato e da donatori privati e stranieri. Separando fisicamente le comunità e relegando i gruppi di pastori nomadi in questi campi cintati, il governo intende prevenire le condizioni stesse del conflitto, legato in molti casi al passaggio delle mandrie attraverso proprietà coltivate.
A quattro anni di distanza, eccettuata l’inaugurazione nell’agosto 2021 di un primo modello di ranch da 22 mila ettari (che è allo stesso tempo un centro di ricerca) nello Stato di Nasarawa, in parte finanziato dai Paesi Bassi, il Piano si trova a un binario morto. La sua realizzazione, già viziata dai ritardi causati dalla pandemia da Covid-19, trova oggi la ferma opposizione dei gruppi parlamentari di etnia fulani che lo ritengono lesivo degli interessi delle comunità pastorali. Ma a bloccare il progetto sono anche, e soprattutto, la carenza di risorse finanziarie e di know how, oltre che la situazione di grave instabilità nella cosiddetta Middle Belt, la cintura che taglia longitudinalmente il Paese separando Nord e Sud, che allontana capitali e investitori.
La criminalità organizzata
La crescita della criminalità organizzata in Nigeria è stata largamente agevolata dal clima di instabilità generato dalle violenze intercomunitarie, dall’inasprimento della competizione per le risorse e dall’assenza dello Stato federale. Specialmente nel Nord-Ovest, si sono moltiplicate le gang armate, composte da yan bindiga (banditi) o yan ta’adda (terroristi) in lingua hausa, specializzate nel furto di bestiame, nello sfruttamento minerario, nel traffico di armi, droga ed esseri umani e nei rapimenti di massa, attività quest’ultima in sensibile aumento. Col tempo alcune gang hanno assunto dimensioni tali da costituire veri e propri potentati economici e politici, arrivando a sostituire lo Stato nella riscossione delle tasse, come forma di pagamento per la sicurezza garantita alle comunità poste sotto il loro controllo.
D’altra parte, la pressione esercitata dalle organizzazioni criminali, unita alla minaccia terroristica, ha portato le comunità rurali ad armarsi sempre di più e a organizzarsi in gruppi di vigilanza e milizie private. La presenza di gruppi criminali tra loro concorrenti ha portato alla formazione di dinamiche di alleanza e antagonismo che hanno coinvolto le comunità rurali. I furti di bestiame, la distruzione dei raccolti e i casi di rapimento alimentano, infatti, accuse reciproche di parteggiare per l’una e l’altra parte. E se le comunità contadine subiscono attacchi alla proprietà e al raccolto, le comunità di pastori fulani si trovano accusate di collusione con i banditi, dal momento che con questi spesso condividono lingua, cultura e provenienza geografica.
Il 5 gennaio 2022, il governo ha deciso l’equiparazione delle gang criminali del Nord del Paese al rango di terroristi, di fatto portando all’inasprimento delle sanzioni contro i militanti, i loro informatori e sostenitori. La decisione è arrivata dopo un lungo periodo di pressioni politiche da parte dei governatori statali e della stampa, affinché l’ex-presidente Buhari assumesse una postura più attiva nel contrasto alle bande criminali. Tuttavia, gli attacchi e le violenze non hanno accennato a fermarsi.
Data la complessità e le ramificazioni del problema, il governo ha evitato per il momento di intervenire con l’esercito, mentre ha assicurato ai bombardamenti dall’alto la funzione di deterrenza e rappresaglia. I raid, oltre che imprecisi, e quindi potenzialmente pericolosi per i villaggi che hanno già subito l’occupazione delle gang, risultano spesso tardivi e inutili, in quanto i gruppi criminali hanno già preso la via di fuga e attraversato i porosi confini federali e interstatali.
53 anni dopo, il Biafra continua a ribollire
Teatro tra il 1967 e il 1970 di un brutale conflitto per l’indipendenza dal governo centrale di Abuja, il Biafra è una regione del Sud-Est, abitata dagli igbo, terzo gruppo etnico del Paese dopo gli hausa e fulani del Nord e gli yoruba del Sud-Ovest. Conosciuti per le loro capacità imprenditoriali e per la ricchezza petrolifera della regione che abitano, gli igbo sono però stati tradizionalmente marginalizzati dalla vita politica ed economica della Federazione nigeriana, tanto che le rivendicazioni separatiste, a 53 anni dalla resa degli indipendentisti, non si sono sopite.
Dal 2012, sono riemerse con forza, a seguito della costituzione dell’Indigenous People of Biafra (IPOB), da parte di due igbo emigrati nel Regno Unito, Nnamdi Kanu e Uche Mefor, che ritenevano il governo responsabile della marginalizzazione politica ed economica della regione e chiedevano lo svolgimento di un referendum per l’ottenimento dell’indipendenza.
Nato come raggruppamento pacifico, ma bandito dal governo nigeriano già nel 2017 e definito dalla Corte di Abuja un’organizzazione terroristica, dal 2020 l’IPOB è stato affiancato da un’ala militare, la Eastern Security Network (ESN), che ha iniziato a condurre attacchi violenti nel Sud-Est del Paese, ai quali l’esercito nigeriano ha risposto con la forza.
Sia l’IPOB che l’ESN fanno leva, in molti casi con successo, sulla percezione diffusa tra gli igbo di essere estromessi dalla vita politica ed economica nigeriana. Dopotutto, sono pochissimi i membri di questa etnia giunti a ricoprire ruoli politici e militari di prestigio a livello federale, mentre economicamente, il Biafra, pur essendo ricco di petrolio, soffre di limiti strutturali e non beneficia dello stanziamento di adeguate risorse da investire nello sviluppo infrastrutturale e sociale della regione.
L’ESN quindi giustifica la propria attività di guerriglia con la necessità di difendere la popolazione del Biafra e rivendicarne l’autodeterminazione, ma, oltre a colpire i militari dell’esercito federale, i separatisti compiono violenze indiscriminate anche nei confronti della popolazione, attaccando villaggi e arrestando e uccidendo capi tradizionali e civili sospettati di appoggiare il governo.
In più, nei mesi precedenti le elezioni del 25 febbraio, nel tentativo di minare il processo elettorale e destabilizzare le fondamenta dello Stato centrale, i separatisti hanno attaccato le sedi della Commissione elettorale e ucciso alcuni membri del suo staff, invocando il boicottaggio del voto.
Pur indeboliti dagli scontri con l’esercito nigeriano e dai continui arresti tra i leader – Kanu, in particolare, è stato più volte incarcerato ed è attualmente sotto processo ad Abuja con l’accusa di terrorismo – IPOB ed ESN continuano a costituire un preoccupante fattore di destabilizzazione nella regione.
«Nulla poena sine lege»: la pirateria al largo del Golfo di Guinea
Al largo del Golfo di Guinea, su cui la Nigeria si affaccia per 855 chilometri, ci sono acque tra le più densamente popolate di pirati. Si tratta di un’area strategica e tra le più dinamiche sul piano economico, in ragione del volume crescente di traffici commerciali, da cui dipende in larga parte la crescita del PIL degli Stati che si affacciano sul Golfo. L’espansione delle opportunità di affari ha portato negli ultimi anni a un aumento vertiginoso degli attacchi di pirati. Le imbarcazioni colpite vengono depredate del carico, dei dispositivi tecnologici e, in alcuni casi, sono soggette al rapimento dei membri dell’equipaggio.
Il reato di pirateria è disciplinato sul piano internazionale dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) stipulata nel 1982 e sottoscritta dalla Nigeria nell’agosto 1986. Secondo l’articolo 101 della Convenzione, «la pirateria consiste in […] ogni atto illegale di violenza o detenzione o ogni atto di depredazione, commessi per fini privati dall’equipaggio o dai passeggeri di un’imbarcazione o velivolo privati» condotto «in alto mare», «al fuori della giurisdizione di ogni Stato», contro «un’imbarcazione o velivolo, persone o proprietà».
Come si evince, la legge è applicabile solo in presenza di due condizioni: il crimine deve avere fini di natura privata e deve avvenire in alto mare, ovvero al di fuori delle giurisdizioni nazionali. Mentre la prima di queste condizioni trascura la possibilità che la pirateria possa coinvolgere apparati pubblici collusi con i network criminali e rende più complicato tener conto di casi di corruzione, la seconda impedisce che i responsabili dei crimini possano essere perseguiti se agiscono in acque territoriali di Stati che non prevedono la fattispecie di reato.
Nel giugno 2019, la Nigeria è diventata il primo Paese della regione ad approvare una legge contro la pirateria, la Suppression of Piracy and Other Maritime Offences Act (POMO). Ma invece di definire un proprio contesto di applicazione legale, la legge ha aderito al quadro normativo stabilito dall’UNCLOS, ereditando così le sue criticità.
La norma è quindi difficilmente applicabile se viene provato un coinvolgimento di apparati dello Stato e non tiene sufficiente conto delle difficoltà di operare in acque internazionali o straniere. Il POMO Act manca inoltre di specificare quali agenzie di sicurezza dovrebbero essere ritenute responsabili della sua esecuzione, ambiguità che ha originato problemi di sovrapposizione di competenze e di coordinamento interistituzionale. Le difficoltà di applicazione della legge si aggravano quando le operazioni di cattura, arresto e prosecuzione giudiziaria degli imputati richiedono il coordinamento internazionale con altre agenzie e Stati che non possiedono una normativa nazionale di riferimento.
Uno dei fattori più problematici nel combattere la pirateria nel Golfo di Guinea è quindi dato dalla generale assenza di norme nazionali che permettano di perseguire i responsabili di attacchi in mare come pirati, insieme al sottofinanziamento e all’incapacità operativa degli organi istituzionali preposti a occuparsi del problema.
La Nigeria è sempre più armata
La larghissima circolazione di armi di piccolo taglio nel Paese è il carburante col quale si alimentano le violenze tra agricoltori e pastori, i movimenti secessionisti a Sud, le operazioni terroristiche e le attività dei gruppi criminali nel Centro-Nord. Secondo un rapporto prodotto nel 2020 da SBM Intelligence, il numero di armi nelle mani di attori non-statali si aggira attorno alle 6.145.000 unità, mentre le forze militari e di polizia potrebbero contare solo su 586.000 armi da fuoco.
Alcune organizzazioni criminali hanno stabilito centri locali di produzione di armi, che vanno ad alimentare i canali di contrabbando interno e regionale. Sebbene sia difficile stimare il volume di questa produzione autoctona, la maggioranza delle armi e munizioni in circolo nel Paese è probabilmente importata da Paesi come Turchia, Cina, Pakistan, Russia, Brasile e Stati Uniti.
La grande disponibilità di armi di piccolo calibro permette alla criminalità organizzata di portare avanti una propria agenda politica ed economica ed espandere il proprio controllo sul territorio. Ad esempio, alcuni gruppi criminali sono entrati nel business dell’estrazione e del commercio d’oro nello Stato di Zamfara. In questa regione, tra le più afflitte dagli attacchi alle comunità rurali, larga parte dell’economia sommersa consiste nello sfruttamento illecito di riserve minerarie e nel contrabbando di armi attraverso il confine con il Niger.
Conclusione
Buhari ha lasciato a Bola Tinubu il governo di un Paese in ebollizione, afflitto da numerosi e diversi fattori di instabilità: jihadismo, conflitto tra agricoltori e allevatori, radicamento di organizzazioni criminali, tentativi secessionisti, pirateria e tensioni sociali legate all’elevato tasso di disoccupazione giovanile (secondo le stime del governo al 42,5%).
La risposta militare non è, e non sarà mai, sufficiente. Le operazioni si sono spesso rivelate inefficaci, fallendo nel sedare le tensioni e nel riportare sotto l’autorità statale i territori controllati dai gruppi terroristici, criminali e separatisti. Il nuovo governo nigeriano deve trovare la forza e la volontà di intervenire sulle origini della crisi sociale che avvolge l’intero Paese, rafforzando il sistema scolastico e investendo su piani di sviluppo socioeconomico, per creare nuovi posti e opportunità di lavoro e stimolare una crescita inclusiva e sostenibile di tutte le regioni del Paese.
Fonti e approfondimenti
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Femi Ibirogba, Abel Abogonye, Rauf Oyewole, Murtale Adewale, “Why FG’s livestock plan has failed to take off since 2019”, The Guardian, 12/07/2021.
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Leif Brottem, “The growing complexity of farmer-herder conflict in West and Central Africa”, Africa Center for Strategic Studies, 12/07/2021.
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Nwonwu Chiagozie, “Biafra quest fuels Nigeria conflict: Too scared to marry and bury bodies”, BBC, 09/01/2023.
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SB Morgen. 25/05/2017. The prospects of Biafra 2.0.
Steinberg Guido, Weber Annette. 2015. “Jihadism in Africa. Local Causes, Regional Expansion, International Alliances”. Stiftung Wissenschaft und Politik German Institute for International and Security Affairs. Berlino. pp. 5-6; 85-102.
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Editing a cura di Beatrice Cupitò