Il 29 e il 30 giungo scorso a Washington DC c’è stato il primo faccia a faccia tra il neo presidente della Casa Bianca, Donald Trump, e il neo presidente della Casa Blu, Moon Jae-in. Il nuovo corso di relazioni USA-Corea del Sud è a parti invertite, in cui il progressista non è più la guida della Casa Bianca ma ha residenza a Seoul, mentre l’ala ultra conservatrice non è più la guida della Casa Blu, spostandosi nell’ufficio Ovale di Washington.
Come avevamo scritto qualche mese fa (qui l’articolo), Moon Jae-in dichiarò in campagna elettorale che in caso di vittoria la prima visita ufficiale sarebbe stata nella capitale della Corea del Nord, Pyongyang. Così non è stato. La prima visita ufficiale fuori dai confini coreani è stata invece dai grandi rivali della Corea del Nord, gli USA. L’approccio di Moon al summit con Trump non è stato di assoggettamento alla forza statunitense. Tantomeno si è discusso di una concessione di terreno politico nei confronti di Pyongyang.
I punti che Moon ha riaffermato con forza sono stati il THAAD e le politiche da usare verso la Corea del Nord. Per contro, Trump ha continuato la sua retorica protezionista, affermando che l’area di libero scambio (FTA) KORUS era tutta da ridiscutere perché sconveniente per gli USA.
L’alleanza sino-coreana per capire l’opposizione al THAAD
Il THAAD, il sistema anti-balistico di produzione statunitense che ha avuto autorizzazione ad essere installato in Corea del Sud pochi giorni prima dell’impeachment di Park Guen-hye, continua a provocare molte polemiche. Tale sistema ha capacità balistica dalla Corea del Sud fino a Pechino e la risposta di Xi Jinping a questa autorizzazione non è stata per niente accogliente. Anzi, lo scontro tra Cina e USA di questi ultimi mesi non ha solo un risvolto economico e commerciale, ma anche strategico-militare, dove il THAAD ricopre il punto di scontro più importante.
L’opposizione di Moon nei confronti dell’installazione del sistema anti-balistico è dovuta anche alle relazioni fiorenti tra Corea del Sud e Cina. Infatti, nonostante sia stata istituita un’area di libero scambio tra gli Stati Uniti e Seoul, il punto di riferimento per gli scambi commerciali, sia in import che in export, è proprio il colosso asiatico.
Facendo un po’ di conti:
- EXPORT: $538 miliardi di export annui, di cui $131 miliardi verso Pechino e $26,3 miliardi verso Hong Kong. Vale a dire rispettivamente il 25% e il 5%, contro i $72,7 miliardi verso gli USA (ovvero il 14% del totale). Il 60% dell’export sud coreano è verso il continente asiatico mentre solo il 32% verso i Paesi Occidentali (19% verso l’America del Nord, 13% verso l’Europa). Dati 2015
- IMPORT: la situazione rimane pressoché invariata: $90,1 miliardi di importazioni dalla Cina, ovvero il 21% del totale. Gli Stati Uniti esportano verso la Corea del Sud solo $42,7 miliardi, ovvero il 10% del totale. A fronte di un import di $423 miliardi il 62% viene dal continente asiatico mentre il 30% da Basi Occidentali (18% dall’Europa, 12% dall’America del Nord). Dati 2015
Da questi numeri può essere compreso come la Corea del Sud sia un Paese asiatico e non Occidentale. Questo spinge i decision makers di Seoul a seguire, spesso e volentieri, l’andamento dell’economia e della politica asiatica, rispetto a quella Occidentale.
A questo contesto si associa il crescente tentativo della Corea del Sud, da quasi venti anni, di diventare una grande potenza economica. Questo obiettivo può essere raggiunto più facilmente attraverso stretti contatti con il mondo Occidentale e una presenza influente all’interno del G20.
KORUS, l’area di libero scambio tra USA e Corea del Sud
KORUS è l’area di libero scambio tra gli Stati Uniti d’America e la Repubblica di Corea, entrato in forza il 15 marzo 2012. Dal sito dell’ufficio statunitense per il commercio si può constatare come, rispetto ai dati 2015 elencati sopra, le politiche di restrizione siano iniziate già prima dell’arrivo di Trump alla Casa Bianca. Tra il 2015 e il 2016 l’import e l’export con la Corea del Sud è diminuito di circa il 2,5%, ovvero quasi $2 miliardi per l’import e altri $2 miliardi per l’export.
Il deficit commerciale (il disavanzo delle esportazioni sulle importazioni) degli USA nei confronti della Corea del Sud nel 2016 è di quasi $28 miliardi, circa il 2,3% in meno rispetto al 2015. E’ quindi evidente come la politica commerciale nei confronti della tigre asiatica sia di ridurre il deficit il più possibile, mantenendo però delle vie preferenziali con Seoul attraverso il KORUS. Inoltre, gli investimenti diretti (IDE), da parte USA verso la Corea del Sud, sono invece incrementati dal 2014 al 2015 del 3,3%, arrivando nel 2015 a $34,6 miliardi.
Dopo cinque anni dall’entrata in vigore dell’FTA KORUS, Donald Trump ha sostenuto la necessità di modificarlo, in quanto gli Stati Uniti sono in costante debito nei confronti della potenza asiatica. Il che è vero, ma come la storia recente della bilancia commerciale degli Stati Uniti può testimoniare, la forte credibilità degli USA nel mondo ha permesso a Washington di attuare una politica economica di forte deficit nei confronti dei suoi alleati, riuscendo in questo modo a espandersi economicamente in tutti i continenti.
Dal summit quindi è emersa la necessità di una revisione dell’area di libero scambio, prendendo in considerazione anche di emendare il KORUS. La propaganda, e in parte crediamo anche la mancanza di conoscenze del Presidente Donald Trump, ha portato l’inquilino della Casa Bianca ad affermare che ci sia bisogno di una “rinegoziazione” di un trattato definito “orribile” dallo stesso Presidente. La differenza tra revisione e emendamento di un trattato e la sua rinegoziazione, sta nel fatto che l’ultimo termine prevede una (quasi) eliminazione del trattato esistente. La logica conseguenza sarebbe un ritorno delle due parti al tavolo delle trattative. Un atteggiamento che sarebbe quantomeno aggressivo da parte degli USA nei confronti di quello che dovrebbe essere uno dei più grandi alleati del Pacifico.
Proprio le visite del Segretario della Difesa James Mattis in marzo (sua prima visita di Stato), quella del Segretario di Stato Rex Tillerson a fine marzo e quella del vicepresidente Mike Pence in aprile a Seoul, ci fanno capire come, nonostante Donald Trump continui ad avere un linguaggio violento e di chiusura nei confronti della penisola, il dialogo è molto aperto.
La Corea del Nord, tra violenza ed engagement
Il terzo grande terreno di scontro tra Moon Jae-in e Donald Trump è sicuramente la questione Corea del Nord. Dopo dieci anni di governi conservatori la rinascita progressista in Corea del Sud ha portato nuovamente alla politica del flexible engagement. Quest’ultima prevede la necessità di non avvalersi dell’arma delle sanzioni economiche contro atti di violenza politica, ma piuttosto di utilizzare una risposta violenta ad atti violenti, senza però andare a minare la stabilità economica di Pyongyang.
La visione di Moon Jae-in si basa sulla necessità di aprire un contatto con la parte Nord della penisola attraverso un dialogo regionale, senza Paesi terzi che entrino nella trattativa. Questa prospettiva non è molto lontana da uno dei tre pilastri che nel 1972 aprirono per la prima volta la strada del dialogo inter-coreano attraverso il “Joint Statement of North and South”. Il primo pilastro era infatti proprio quello dell’ “indipendenza da interferenze esterne”.
Oltre alla non interferenza di Stati terzi, Moon ha affermato la sua volontà di cooperare con attori internazionali quali Cina e USA, nonché di preservare la pace e di voler risolvere la questione nucleare attraverso quella che potremmo definire la politica delle 2P: Persuasione e Pressione.
La visione è profondamente diversa da quella di Trump che invece ha come primo obiettivo quello di togliere l’arma atomica a Pyongyang, lasciandola così indifesa e facilmente attaccabile. L’approccio arrogante di Washington, che abbiamo già descritto qui, ha portato alle tensioni delle ultime settimane, con nuovi test balistici da parte del regime di Kim Jong-un e atti ancora più violenti come la restituzione del corpo oramai morente dello studente statunitense arrestato l’anno scorso e ridotto allo stato vegetativo prima della morte.
Il mancato dialogo tra Corea del Nord e Stati Uniti d’America ha oramai una datazione lontana nel tempo. L’ultimo vero dialogo tra le due parti è avvenuto nel 1994, 23 anni fa, grazie all’ex presidente Jimmy Carter e al padre della patria nord coreana Kim il-Sung. Questo può far capire come proprio la mancanza di un approccio di engagement, sia la chiave di lettura di questa spirale che spesso porta entrambe le parti a sentirsi minacciate e quindi a reagire di conseguenza.
In quest’ottica la grande possibilità di Moon Jae-in è quella di poter ristabilire un contatto con Pyongyang e di poter lavorare con attori del peso di USA e Cina, senza però doversi sentire schiacciato dal loro peso. Il summit di fine giugno ha dato una risposta chiara a tutto il mondo: la Corea del Sud non ha paura di intraprendere la propria strada per la risoluzione dei conflitti, la cooperazione economica e le politiche di sicurezza regionale.
Fonti e Approfondimenti:
https://www.foreignaffairs.com/articles/south-korea/2017-06-14/good-moon-rising
https://ustr.gov/trade-agreements/free-trade-agreements/korus-fta
http://english.hani.co.kr/arti/english_edition/e_international/802947.html
http://m.yna.co.kr/mob2/en/contents_en.jsp?cid=AEN20170601006700315&site=0200000000&mobile
http://atlas.media.mit.edu/en/visualize/tree_map/hs92/import/kor/show/all/2015/
http://atlas.media.mit.edu/en/visualize/tree_map/hs92/export/kor/show/all/2015/
Appunti sul dialogo Inter-coreano presi dal corso del professor Antonio Fiori “Politics of Contemporary Asia”, Political Science and International Affairs 2017, Università degli Studi di Bologna