ART. 50 TUE: il diritto di ogni Stato membro di uscire dall’Unione

Il Trattato di Lisbona – in vigore dal 1° dicembre 2009 – ha colmato un silenzio di legge di portata non indifferente per quanto riguarda la regolamentazione del recesso degli Stati membri dell’Unione Europea. Questa scelta è stata dettata dalla volontà di rendere l’Europa “più democratica, più trasparente e più efficiente”. 

Dopo esserci soffermati sull’art. 49 TUE – che disciplina l’adesione di un nuovo Stato all’UE – è quindi necessario prestare attenzione alla procedura di recesso dall’UE, disciplinata dall’art. 50 TUE, e introdotta con il Trattato di Lisbona.

PRIMA DI LISBONA

Prima dell’introduzione di tale clausola, la possibilità di recesso (negoziato o unilaterale) non era presente in nessuna disposizione dei trattati. Di conseguenza, per tale eventualità vigeva la disciplina sancita dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 1969, che prevedeva la possibilità di recedere in due casi. Secondo l’art. 54, il recesso di una parte era previsto “in ogni momento, per consenso di tutte le parti, previa consultazione degli altri stati contraenti”, mentre l’art. 62 consentiva il recesso qualora “la situazione fosse cambiata in modo talmente drastico che gli obblighi dei firmatari si erano radicalmente trasformati”.

La ragione dell’assenza di una clausola di tale portata era stata dettata dal carettere permanente che si voleva affidare all’intero processo d’integrazione europea.

Il dibattito sull’inserimento della clausola di recesso in un trattato dell’Unione trova le sue origini nel “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa“ – progetto redatto nel 2003, ma definitivamente abbandonato nel 2007. Nonostante il naufragio della Costituzione per l’Europa, alcune importanti innovazioni discusse per quel trattato sono state inserite nel Trattato di Lisbona, e l’art. 50 TUE ne è un esempio.

BASE GIURIDICA: ART. 50 TUE

Come prima cosa, bisogna inquadrare l’articolo all’interno del trattato: esso è incluso nel TITOLO VI, tra le cosiddette “disposizioni finali”, fra cui – oltre al già citato art. 49 – si annovera anche l’art.48 sulla revisione dei trattati.

Procedendo al contenuto dell’articolo, la decisione di recedere è unilaterale e volontaria per lo Stato membro, che sceglierà le modalità di procedere a tale scelta sulla base delle norme costituzionali dello stesso. Quindi, nella fase di decisione, l’Unione Europea – seppur ovviamente interessata e informata – non riveste nessun ruolo.

L’Unione diventa parte attiva, invece, una volta notificata la volontà di recedere da parte dello Stato, e vede in azione 4 delle 7 istituzioni dell’Unione Europea. In ordine di comparsa nel testo, esse sono: Consiglio Europeo, Consiglio dell’Unione Europea e Parlamento Europeo e – in riferimento all’art. 218 TFUE – la Commissione. Come tipico della struttura dell’UE, essi si coordineranno e si controlleranno a vicenda.

Il procedimento prospettato dall’articolo, quindi, è caratterizzato da una procedura complessa. Infatti, in ordine di procedimenti, è stabilito che una volta che uno Stato ha deciso di recedere dall’Unione deve notificare l’intenzione al Consiglio Europeo, che esprimerà degli orientamenti.  A gestire i rapporti con lo Stato interessato in relazione alla stesura di un accordo sarà invece il Consiglio dell’UE, che – tenuti presenti gli orientamenti espressi dal Consiglio Europeo, e previa approvazione del Parlamento europeo – delibera a maggioranza qualificata l’accordo.

Secondo quanto previsto dall’articolo, lo svolgimento di questo procedimento richiederebbe un limite massimo di 2 anni. Infatti, al comma 3, è previsto che i trattati non saranno più applicabili allo Stato dalla data di entrata in vigore dell’accordo, e in mancanza di quest’ultimo verranno considerati 2 anni dalla data di notifica al Consiglio Europeo. In realtà, data la complessità della questione, l’articolo prevede una terza opzione: la decisione di proroga presa (all’unanimità) dal Consiglio Europeo, in accordo con lo Stato in questione. Viene da sé che, durante tutto il periodo di trattazione, il membro del Consiglio Europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato interessato non prende parte alla decisioni – in seno a queste istituzioni – che lo riguardano.

NEGOZIATI DELL’ACCORDO

L’accordo – negoziato in conformità all’art. 218 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) – è condotto dalla Commissione, e prende la forma di un trattato internazionale a tutti gli effetti. Ciò si evince, oltre che dal contenuto della disposizione, anche dalla posizione che l’art. 218 detiene all’interno del trattato: esso è incluso nel TITOLO V, sotto il titolo di “Accordi internazionali”.

Il procedimento per giungere ad un accordo – come è stato dimostrato dal recente risultato per la Brexit – sarà verosimilmente caratterizzato da contrattazioni e passi lenti, in quanto dovrà definire le modalità di recesso del Paese in questione e le loro conseguenze, cercando di causare meno danni possibile ad entrambe le parti. L’esperienza della Brexit ha fatto chiarezza circa molti elementi poco chiari del procedimento, su cui l’articolo stesso non si soffermava.

Inoltre, va tenuto presente che tale accordo non è da confondere con un eventuale accordo che regoli i rapporti tra UE e l’ex Stato membro. Infatti – sebbene l’accordo di recesso debba tenere conto del quadro delle future relazioni con l’Unione – accordi specifici su sudette relazioni saranno stipulati successivamente, sulla base di quanto previsto dai trattati per la conclusione di accordi con Stati terzi.

I documenti pubblicati dalle istituzioni europee nel corso del periodo di negoziato sono fondamentali e – come dimostrato dal caso Brexit – hanno arricchito le disposizioni del Trattato. In questo caso, infatti, negli orientamenti del Consiglio Europeo si invocava la trasparenza che avrebbe dovuto caratterizzare i negoziati, e si richiamava il principio secondo cui “nulla è concordato finché tutto non è concordato” – a significare che non si potranno trovare soluzioni per singoli elementi. Sempre per volontà del Consiglio Europeo, essi dovrebbero affrontare le questioni derivanti dal recesso in altri settori di cooperazione, e comprendere gli opportuni meccanismi di risoluzione delle controversie e di esecuzione, in ordine all’applicazione ed interpretazione dell’accordo stesso.

Una volta deliberato l’accordo, l’ex Stato membro che vorrà concludere accordi con l’Unione procederà – in veste di Paese terzo – a tale negoziazione, sempre in conformità con le disposizioni dell’art. 218 TFUE. Dunque, trattandosi di un Paese terzo, l’art. 50 TUE non esclude la possibilità a un ex Stato membro di chiedere nuovamente l’adesione, secondo la procedura prevista all’art. 49. L’articolo, invece, tace sulla possibilità di revocare la notifica di recesso. Da un lato, l’importanza affidata al processo di integrazione sembrerebbe significare che uno Stato – qualora cambi idea – debba essere riaccolto dall’Unione. Dall’altro lato, invece, l’interruzione dell’applicazione dell’art. 50 potrebbe significare una violazione dei trattati istitutivi.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

L’analisi dell’art. 50 rappresenta lo scheletro legale di un procedimento che è caratterizzato da interessi, ripensamenti e dubbi.

Il caso del Regno Unito – su cui si ha avuto modo di discutere in modo approfondito – rappresenta indubbiamente il “precedente”, e il primo esperimento di applicazione di questo articolo. L’accordo da poco raggiunto incarna il frutto di compromessi e calcoli attenti, e mostra come la concertazione politica che ha caratterizzato gli ultimi 2 anni si sia discostata dalla “semplice” applicazione della disposizione del trattato. Difatti, l’accordo raggiunto non prevede l’assoluta indipendenza tra le due parti. La proposta del Regno Unito di un periodo transitorio (che terminerà il 31 dicembre 2020) era stata già accolta dall’Unione lo scorso anno, a tutela dei diritti dei cittadini, delle imprese e degli imprenditori. Durante questa fase, il Regno Unito sarà vincolato all’acquis communautaire ma – considerato ormai uno Stato terzo – perderà il diritto di partecipazione e voto nelle istituzioni europee, e non prenderà parte ad alcuna forma di processo decisionale.

Le previsioni sul futuro del Regno Unito, e i risvolti che ci saranno una volta terminato il periodo di transizione, sono molteplici. L’eventuale applicazione, in futuro, dell’art. 50 significherebbe risvolti e previsioni differenti per ogni Stato richiedente. Ciò che è importante sottolineare, invece, è la coesione mostrata in questo frangente dall’Unione Europea, il cui obiettivo generale è quello di salvaguardare (ovviamente) i propri interessi, e soprattutto quelli dei propri cittadini e Stati membri.

FONTI E APPROFONDIMENTI:

1 Comment on "ART. 50 TUE: il diritto di ogni Stato membro di uscire dall’Unione"

  1. Come dice l’art 50 nessuna ingerenza UE nel criterio adottato per il referendum del 2016. Ma come cittadino europeo penso che un 37% non rappresenti la maggioranza nemmeno in un condominio per delibere importanti. Le modifiche importanti vanno votate dal 50% più uno degli aventi diritto.

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