Nizza 2001: la crisi della spinta europeista

Il trattato di Nizza, firmato nel 2001 ed entrato in vigore il 1° febbraio 2003, è quasi un imprevisto nella storia dell’integrazione europea. Arriva infatti subito dopo il trattato di Amsterdam, entrato in vigore nel 1997, che avrebbe dovuto adeguare l’impianto istituzionale dell’Unione in vista dell’allargamento a est ed era stato pensato per accogliere solo cinque nuovi Stati membri: Cipro, Ungheria, Polonia, Estonia e Repubblica Ceca. Le circostanze, tuttavia, stavano rapidamente portando a un maxi-allargamento a dieci Paesi, senza considerare la Turchia (diventata candidato nel 1999) e il futuro dei Balcani.

La conferenza di Amsterdam aveva lasciato irrisolte alcune questioni fondamentali, ironicamente chiamate “avanzi di Amsterdam”: il numero di membri della Commissione, l’estensione della procedura di co-decisione tra Consiglio UE e Parlamento Europeo e la riforma del voto nel Consiglio UE. I cambiamenti necessari avrebbero dovuto snellire i processi decisionali nelle istituzioni comunitarie; per gli Stati membri, questo poteva tradursi in un numero ridotto di rappresentanti e minore peso decisionale.

L’allargamento era ormai un evento certo e le riforme inderogabili. Una nuova conferenza intergovernativa (CIG) si riunì nel 2000 per risolvere questi problemi, e il trattato finale fu adottato dal Consiglio Europeo di Nizza nel dicembre dello stesso anno. A margine del summit, fu anche approvata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, stilata da una conferenza parallela tra dicembre 1999 e settembre 2000.

Il dibattito: tra questioni tecniche e progetti politici

Le trattative di Nizza sono ricordate tra le più combattute della storia dell’integrazione europea. Il mandato della conferenza era esplicitamente limitato alle questioni tecniche già menzionate, evitando le domande fondamentali sul futuro politico dell’Unione Europea e sul processo d’integrazione che ne sarebbe derivato.

Il trattato di Maastricht aveva creato per la prima volta un’Unione a più velocità. Solo alcuni Paesi, infatti, avevano aderito all’Unione monetaria; altri non rispettavano i requisiti necessari, oppure – come nel caso del Regno Unito o della Danimarca – avevano esplicitamente rifiutato. Maastricht aveva anche introdotto l’opt-out, ossia la facoltà di non partecipare alla politica comunitaria anche in altre aree, come la politica sociale o la difesa.

Anche se l’unione politica era sempre stata l’obiettivo nelle intenzioni dei fondatori, solo negli anni Novanta l’UE iniziava ad avere gli strumenti e le competenze necessari per diventare un attore politico internazionale. Non tutti gli Stati membri, però, condividevano questa prospettiva; come il Regno Unito, non interessato a far parte di una ever closer union  un’unione sempre più stretta con gli altri Stati membri.

Mancava un accordo anche tra Francia e Germania, che fino a quel momento erano state il motore del processo d’integrazione. La Germania sosteneva un progetto federalista che avrebbe dato maggiori poteri alle istituzioni sovranazionali; per la Francia, il processo d’integrazione doveva essere controllato saldamente dagli Stati membri. Anche se formalmente escluso dalla conferenza, tale dibattito non poteva non influenzare i negoziati “tecnici”.

A questo proposito, la riforma del procedimento legislativo rimaneva una delle questioni più controverse. La Commissione europea proponeva di estendere l’applicazione della co-decisione tra Consiglio UE e Parlamento europeo, limitando il voto all’unanimità a circostanze straordinarie. La proposta aveva due vantaggi: snellire le procedure, evitando a una minoranza di Stati membri di congelare il processo bloccando provvedimenti sgraditi; e aumentare i poteri del Parlamento europeo, unico organo eletto direttamente dai cittadini dell’Unione.

Con la leadership franco-tedesca in crisi, nessuno tra i “grandi” aveva la forza e il supporto necessari per prenderne il posto. Nel frattempo, gli Stati membri più piccoli e i candidati all’ingresso temevano di essere esclusi dai negoziati e penalizzati da un nuovo assetto istituzionale che avrebbe creato un “direttorio” degli Stati più forti.

I lavori paralleli per la Convenzione

In parallelo alla CIG, proseguivano i lavori sulla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Il documento tracciava un quadro dei diritti civili, politici, economici e sociali fondamentali garantiti a tutti i cittadini degli Stati membri e a tutti i residenti dell’Unione Europea. I diritti sono raggruppati in sei capitoli:

  • Dignità;
  • Libertà;
  • Uguaglianza;
  • Solidarietà;
  • Cittadinanza;
  • Giustizia.

Diversamente dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo – che è stata prodotta dal Consiglio d’Europa ed è rivolta agli Stati membri – la Carta si applica principalmente alle istituzioni ed ai  rappresentanti dell’UE; può interessare i singoli Stati solo quando essi agiscono nell’ambito della normativa comunitaria, che è comunque assai ampio.

Il Consiglio Europeo di Colonia del 1999, che aveva dato avvio ai lavori, aveva già sollevato la questione dello status legale della Carta. Al summit di Nizza del 2000, il documento fu firmato congiuntamente dal Ministro degli Esteri francese Hubert Védrine (la Francia presiedeva il Consiglio durante quel semestre), il Presidente della Commissione Romano Prodi e la Presidente del Parlamento Europeo Nicole Fontaine; non fu però incorporato nel nuovo trattato, rimanendo quindi una dichiarazione politica legalmente non vincolante.

Come nel caso della Convenzione, le divisioni politiche avevano prodotto un compromesso sul contenuto. La Carta, ad esempio, richiamava esplicitamente il principio di sussidiarietà e riconosceva l’esistenza di diverse concezioni di diritti umani, tranquillizzando i critici che temevano un’ulteriore espansione dei poteri dell’UE.

Nonostante i suoi limiti, la Carta compie un passo fondamentale nel rafforzare la cittadinanza europea, istituita dal trattato di Maastricht del 1992. Oltre ad affermare la libertà di circolazione, gli articoli 39 e 40 della Carta garantiscono il diritto di voto e di eleggibilità dei cittadini comunitari su tutto il territorio dell’Unione.

Nel 2004, la Carta fu inclusa nella bozza di Costituzione europea bocciata dai referendum in Francia e Paesi Bassi, e mai entrata in vigore. Con il trattato di Lisbona, il documento ha assunto valore legale ed è diventato parte dell’acquis communautaire.

I risultati: “A Nice Treaty

Il risultato dei lavori lasciò quasi tutti insoddisfatti. Il trattato non conteneva indicazioni precise sulle riforme istituzionali, limitandosi a indicare i principi e le procedure per adattare le istituzioni al futuro allargamento (contenute in un Protocollo sull’allargamento e in dichiarazioni annesse al trattato stesso). Il motivo principale era che le tempistiche dell’allargamento non erano ancora definite, né si sapeva con precisione quanti Paesi sarebbero entrati a far parte dell’UE negli anni successivi.

L’unico Paese ad esprimere soddisfazione fu il Regno Unito, che definì il testo:A Nice treaty”. Il potere di veto degli Stati membri era più limitato che in passato; in compenso, le proposte più audaci – tra cui la Carta dei diritti fondamentali – erano state notevolmente diluite.

I cambiamenti sarebbero entrati in vigore tra il 2004 (per il Parlamento) e il 2005. I cinque Paesi più grandi (Francia, Regno Unito, Germania, Italia e Spagna) – che avevano due rappresentanti in Commissione – avrebbero dovuto accettare la perdita di un commissario; in compenso, il sistema dei voti in Consiglio UE sarebbe stato riformato a favore degli Stati più popolosi, evitando che una minoranza di piccoli Stati potesse di fatto esercitare il veto su qualsiasi proposta.

Il nuovo trattato ampliava i poteri del Presidente della Commissione ed estendeva la procedura di co-decisione, rafforzando il Parlamento europeo. Rendeva inoltre più facile attivare il meccanismo di “cooperazione rafforzata”, che permetteva ad alcuni Stati membri di avviare un’integrazione o una collaborazione più stretta in una determinata area all’interno delle strutture dell’UE. Se da un lato questo poteva agevolare l’integrazione in alcune aree, dall’altro rafforzava il processo “a più velocità” intrapreso con Maastricht.

Nizza è spesso stata considerata come un do ut des tra i partecipanti – uno scambio di voti e rappresentanti nelle istituzioni, piuttosto che un evento politicamente significativo. Si era giunti ad uno stallo: l’Unione Europea poteva essere un soggetto politico? La tragedia dei Balcani, e l’incapacità dell’UE di trovare una posizione condivisa al riguardo, rendevano questa domanda ancora più pressante.

Nonostante la maggior parte delle decisioni di Nizza sia stata successivamente rivista, c’è da dire che un risultato così deludente spinse Francia e Germania a riprendere l’iniziativa per avviare una sorta di processo costituzionale d’impianto prettamente politico. Il risultato fu la convocazione di una Convenzione europea sul futuro dell’Europa con il mandato di stilare una Costituzione europea, che avrebbe visto la partecipazione delle delegazioni nazionali, ma anche dei Parlamenti e dei rappresentanti delle parti sociali.


Fonti e approfondimenti

The Guardian, “The issue explained: the treaty of Nice”, 18/10/2002

The Irish Times, “Question of `Amsterdam leftovers’ is test of nations’ relative strength”, 07/12/2000

Epravo, “Decision-making process after the Treaty of Nice”, 16/12/2002

Parlamento Europeo, La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea:

Glossario dell’Unione Europea: cooperazione rafforzata 

CVCE, Composition of the European Commission 

The Telegraph, “What the Treaty of Nice will really mean for Britain”, 16/11/2000

BBC, “Nice Treaty”, 12/06/2001

CVCE, “The political implications of the enlargement of the European Union”,

The Irish Times, “The Nice Treaty and what it’s all about”, 12/05/2001

Christopher McCrudden, “The Future of the EU Charter of Fundamental Rights”, 2001

CVCE, “The Charter of fundamental rights of the European Union

Parlamento Europeo, “Il Parlamento europeo e la CIG 2000. Obiettivi e procedure

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