Il movimento di protesta in Bielorussia potrebbe avere qualcosa da insegnarci

@Homoatrox - Wikimedia Commons - CC BY-SA 3.0

Negli ultimi due mesi, la Bielorussia è rimasta sotto i riflettori internazionali (e mediatici) molto più a lungo di quanto sia stata da quando Aleksandr Lukashenko è diventato presidente,  26 anni fa. Quello che sta succedendo nel Paese dalle elezioni del 9 agosto scorso, in effetti, è notevole: centinaia di migliaia di persone hanno iniziato a scendere in piazza per manifestare contro le quasi tre decadi di presidenza di Lukashenko, in carica dal 1994.

Nel corso dei suoi ininterrotti mandati, infatti, il regime autoritario costruito in Bielorussia da Lukashenko gli è valso il soprannome di “ultimo dittatore d’Europa”. Mentre si assicurava il pieno potere esecutivo e giudiziario, il presidente ha trasformato il tentativo dei cittadini di esercitare i diritti civili e politici in una minaccia alla “stabilità sociale” del Paese da perseguire metodicamente. 

Da tempo, inoltre, numerosi osservatori internazionali mettevano in dubbio la democraticità dello stesso procedimento elettorale bielorusso. In una mozione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (Pace) di settembre scorso, si legge che “l’Assemblea parlamentare ha osservato numerose elezioni in Bielorussia dal 1995 e ha costantemente rilevato gravi carenze riguardo al processo elettorale, oltre il giorno delle votazioni”. 

Le elezioni presidenziali del 9 agosto 2020 sono state condotte attraverso lo stesso sistema screditato, oltre che in assenza degli osservatori indipendenti dell’ODIHR: pertanto non possono essere considerate libere ed eque. Secondo un report dell’Eastern Partnership Civil Society Forum (EaP Csf), le autorità bielorusse non hanno rispettato i diritti umani e politici stabiliti nel Patto internazionale sui diritti civili e politici (Iccpr) e nel Documento di Copenaghen dell’Osce, nonché nella Costituzione della Repubblica di Bielorussia.

Da un certo punto di vista, quindi, il 9 agosto non è successo niente di inusuale per la Bielorussia: i risultati ufficiali diffusi dalla Commissione elettorale centrale (Cec) hanno attribuito a Lukashenko l’80% dei voti, mentre alla sua principale sfidante Sviatlana Tikhanovskaya solo il 10% (le stime non ufficiali riportavano praticamente il contrario). La vera novità è stata la mobilitazione senza precedenti dei cittadini, organizzata in maniera sistematica dall’opposizione politica, che questa volta non si è arresa davanti alle violenze e alle intimidazioni da parte delle forze dell’ordine. 

La parte di popolazione a cui in questi anni è stato a lungo impedito di manifestare il proprio dissenso ha dimostrato di averne avuto abbastanza di autoritarismo: centinaia di migliaia di bielorussi sono scesi in strada per riprendersi la democrazia. Nessun osservatore se lo sarebbe mai aspettato, dopo decenni di repressione. Cosa sta succedendo in Bielorussia? Perché proprio ora? E, soprattutto, perché è importante?

La composizione e le tattiche del movimento

Per queste elezioni presidenziali, l’opposizione ha reagito ai brogli delle autorità in modo sistematico, riuscendo a ottenere un successo mai riscontrato prima presso i cittadini. Dopo un attento e difficoltoso monitoraggio dei seggi, dalla sera del 9 agosto in tutto il Paese sono iniziate le manifestazioni di protesta contro il regime. La stessa candidata dell’opposizione Tikhanovskaya ha denunciato pubblicamente la scarsa democraticità del processo elettorale, per poi rifugiarsi nella vicina Lituania subito dopo la votazione.

Buona parte del successo del movimento organizzato da Tikhanovskaya che, dal 9 agosto, è riuscito a mobilitare masse di cittadini che vanno dalle 20mila alle 70mila persone (con il picco della “Marcia per la libertà” del 16 agosto, nella capitale Minsk, con più di 200mila partecipanti) risiede nel suo metodo: il pacifismo assoluto. Oltre alle dimissioni di Lukashenko, quello che i manifestanti vogliono ottenere sono elezioni libere, il rilascio dei prigionieri politici e il ripristino della Costituzione democratica precedente agli emendamenti apportati dal presidente a partire dagli anni ‘90. 

Nelle piazze, queste istanze sono state accompagnate da fiori, palloncini colorati, musiche e canti. Inoltre, i manifestanti hanno mantenuto un persistente atteggiamento di apertura e gentilezza verso le forze dell’ordine che li malmenavano. Come a voler dimostrare: siamo tutte vittime dello stesso sistema. Non siete voi poliziotti il problema, è Lukashenko.

Le proteste si sono in breve tempo allargate in tutto il Paese. All’inizio i sostenitori dell’opposizione erano perlopiù rappresentanti dell’intellighenzia –  liberali e nazionalisti degli anni Novanta –  insieme ai giovani abitanti delle città bielorusse – uomini d’affari e professionisti informatici che si definiscono filo-occidentali e progressisti. 

A questi segmenti di popolazione, si sono progressivamente uniti in sciopero i lavoratori, primi fra tutti gli operai delle fabbriche, i dipendenti pubblici e della televisione di Stato. Diversi funzionari statali si sono dimessi, mentre dai piccoli centri abitati hanno iniziato ad arrivare video di poliziotti solidali con i manifestanti.

Il ruolo delle donne

Solo un paio d’anni fa, la presidentessa della Commissione elettorale bielorussa Lidia Yermoshina affermava che “le donne sono apolitiche per natura”. Se esistevano dei dubbi in merito all’infondatezza di una dichiarazione del genere, le recenti proteste li hanno spazzati via: le donne sono state sempre in prima linea. Già il 12 agosto, sull’onda di una prima iniziativa di Minsk, catene umane di donne vestite di bianco e armate di fiori si sono formate spontaneamente in più di 40 città, per chiedere la liberazione dei figli e dei compagni arrestati. Spessissimo, poi, le donne bielorusse agiscono da “cuscinetti umani” alle manifestazioni, nel tentativo di proteggere i compagni di lotta dalla violenza della forze di sicurezza.

Inoltre, le donne sono diventate protagoniste non solo nelle strade, ma anche nei vertici dell’opposizione stessa, come la candidata Tikhanovskaya e il suo triumvirato elettorale insieme alle collaboratrici Veronika Tsepkalo e Maria Kolesnikova, denominato “Solidarietà Femminile”. 

Tutte e tre le donne sono emerse dall’ombra di altrettanti ex candidati maschi: rispettivamente, il vlogger Syarhey Tsikhanouski (marito di Tikhanovskaya), l’ex diplomatico e dirigente IT Valery Tsepkalo (marito di Veronika) e l’ex direttore di banca Viktor Babaryko (per cui Kolesnikova era responsabile di campagna). Quando i tre sfidanti sono stati rimossi dalla competizione elettorale, le compagne e colleghe hanno preso in mano la situazione e continuato l’opposizione contro il regime.

Quella in Bielorussia, pertanto, non è solo una lotta contro l’autoritarismo ma anche contro il suo stretto alleato: il patriarcato. Bastano le parole pronunciate da Lukashenko in un discorso pre-elezioni all’Assemblea nazionale per farsi un’idea della situazione nel Paese: “La Bielorussia è la mia amante, per questo non la lascerò andar via”. Nonostante pochissime di loro si dichiarino femministe, le donne bielorusse hanno voluto dimostrargli che non si può dare amore dietro coercizione. 

Tikhanovskaya, Tsepkalo e Kolesnikova sono il simbolo di una nuova generazione di donne istruite, competenti e determinate che fatica a trovare il giusto spazio all’interno di un mondo – specialmente quello del lavoro e della politica – ancora saldamente nelle mani degli uomini. Il loro impegno politico è costato l’esilio dal Paese a Tikhanovskaya e Tsepkalo, mentre Kolesnikova attualmente è detenuta a Minsk con l’accusa di tentato colpo di stato.

Una “disobbedienza” inclusiva e autodisciplinata

In qualsiasi modo si concluda la lotta dell’opposizione bielorussa, rimarrà ferma la sua importante lezione di democrazia: un movimento inclusivo attraverso cui le donne si stanno aprendo il proprio spazio politico e costruendo una nuova cultura legalitaria. Un movimento che ha riscosso ampio sostegno internazionale, grazie all’utilizzo di nuovi media e social network. Anche se l’accesso alla rete internet è stato a lungo parzialmente bloccato in Bielorussia dall’inizio delle manifestazioni, i cittadini sono riusciti a far circolare le informazioni dentro e fuori dal Paese.

Server proxy e applicazioni di criptaggio, uniti alle comunità diasporiche bielorusse all’estero, hanno tenuto il mondo aggiornato sulle violenze a cui sono stati sottoposti i manifestanti da parte del regime. In loro sostegno, si sono svolte numerose manifestazioni in Paesi europei come Germania, Polonia, Romania, Lituania, Ucraina, Russia, Repubblica Ceca e Italia. Anche canali come YouTube e Telegram hanno rivestito un ruolo fondamentale. Durante la campagna elettorale prima del 9 agosto, “Solidarietà Femminile” e il suo elettorato si sono affidati ai social network per organizzare incontri, promuovere la loro agenda, rafforzare la solidarietà tra la gente comune e, soprattutto, per informare sulle frodi elettorali.

Inoltre, nonostante “Solidarietà Femminile” sia diventata il volto delle proteste, la leadership del movimento è del tutto decentralizzata: non c’è una sola persona al comando, tutte e tutti coloro che vogliono partecipare possono essere coinvolti nel processo di costruzione della nuova democrazia. Il Consiglio di coordinamento organizzato dal triumvirato di Tikhanovskaya, appunto, coordina, non ordina. 

Il coraggio del popolo bielorusso 

Un paio di anni fa ho vissuto e lavorato alcuni mesi a Minsk. Mi è rimasta impressa l’aria che si respirava in questo piccolo angolo di Unione Sovietica (monumenti, palazzi, strade e festività sono rimasti gli stessi): un’aria pesante, carica di frustrazione e di tristezza. Le persone avevano paura di attirare l’attenzione delle autorità, di infrangere anche le più piccole regole – come attraversare ai semafori col rosso o calpestare le aiuole. Ora mi rendo conto che quel clima di immobilità era la calma prima della tempesta.

Per usare le parole del giornalista polacco Sławomir Sierakowski, anche Lukashenko “è bloccato mentalmente agli anni Novanta”. Tuttavia, “non ha imparato niente”: Tikhanovskaya minaccia un altro sciopero generale dei lavoratori bielorussi se il presidente non si dimetterà e non rilascerà i prigionieri politici entro il 25 ottobre. L’Unione europea minaccia nuove sanzioni contro di lui, dopo quelle già emesse da Stati Uniti, Regno Unito e Paesi baltici. Eppure, Lukashenko non accenna a indietreggiare, anzi. 

Lunedì 12 ottobre, il ministro dell’Interno Gennady Kazakevich ha dichiarato che la polizia è pronta ad aprire il fuoco contro i manifestanti, “se sarà necessario”. Servirà tutto il coraggio e la forza del popolo bielorusso per sconfiggere questo regime e mantenere le promesse di democrazia inclusiva e legalitaria del movimento di opposizione.

 

Fonti e approfondimenti

Il Manifesto, La rivolta bielorussa ha il volto delle donne, 03/10/20.

Internazionale, Quando le donne guidano le proteste i risultati si vedono, 18/09/20.

Jacobin Italia, La sinistra nel movimento bielorusso, 21/08/20.

Internazionale, La lunga strada dell’opposizione bielorussa verso la democrazia, 11/08/20. 

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