Di Enrico La Forgia e Woman_Life_Freedom
«Abbiamo fermato droghe e migranti. Ora li subirete e gestirete per conto vostro». Con queste parole, Aljaksandr Lukashenko, il presidente della Bielorussia in carica dal 1994, preannunciava a inizio estate 2021 le sue intenzioni di rispondere alle sanzioni dell’Unione europea utilizzando i migranti, uno degli spauracchi di Bruxelles.
A maggio, infatti, l’UE aveva introdotto nuove sanzioni nei confronti di Minsk – già colpita da misure simili per la violenta repressione esercitata verso le proteste nel post-elezioni presidenziali del 2020 – in seguito al dirottamento del volo di linea Ryanair 4978. Sull’aereo si trovava Roman Protasevic, l’attivista di estrema destra e giornalista bielorusso che più di una volta ha accusato Lukashenko di violare i diritti umani.
“Guerra ibrida” e respingimenti alla frontiera: nello scontro tra Minsk e Varsavia perdono solo i migranti
Per mesi, a partire da luglio, Lituania, Polonia, Estonia e Lettonia hanno registrato un aumento esponenziale degli attraversamenti “illegali” dei propri confini da parte di migranti provenienti dalla Bielorussia. La crisi diplomatica tra Minsk e Varsavia, destinazione principale di migliaia di migranti, è scoppiata ufficialmente a inizio novembre, quando il Primo ministro Mateusz Morawiecki ha accusato Minsk di condurre una guerra “ibrida” nei confronti della Polonia e dell’UE.
Il conseguente scenario, con l’ingente dispiegamento di forze militari da una parte all’altra del confine polacco-bielorusso e la presenza di migliaia di migranti bloccati nella “terra di nessuno”, ha dimostrato non solo l’ipocrisia dell’UE – che si presenta come paladina dei diritti umani salvo poi cambiare volto in base alle circostanze – ma anche l’esistenza di una strategia, tutto meno che nuova, che vede nei migranti uno strumento di pressione sulla scacchiera geopolitica.
Infatti, sanzioni o non sanzioni, muri o non muri, le realtà politiche, socio-economiche e climatiche delle regioni di provenienza dei migranti (principalmente Medio Oriente, Nord Africa e Africa Subsahariana) lasciano intendere tutt’altro che un affievolimento dei flussi in futuro e, conseguentemente, un protrarsi della strumentalizzazione dei migranti da parte dei Paesi di transito.
Le modalità della tratta: Stati-trafficanti e informazioni fuorvianti
A differenza delle tratte solitamente percorse dai migranti, quella che vede la Bielorussia come terra di passaggio per raggiungere l’area Schengen presenta diverse peculiarità. Tramite la sua rete di consolati in Medio Oriente, Minsk ha per mesi provveduto al rilascio di visti validi per la Bielorussia in tempi decisamente brevi e con requisiti accessibili alla quasi totalità della popolazione locale. Contemporaneamente, la compagnia di bandiera bielorussa, la Belavia, ha intensificato le tratte con i maggiori aeroporti della regione. Il viaggio che porta a Minsk, agli occhi di chi è intenzionato a raggiungere l’Europa, appare come il più semplice e diretto, nonostante costi tra i 10 e i 15 mila euro. Inoltre, da quanto dichiarato da alcuni dei migranti rimpatriati, i consolati di Minsk hanno rilasciato informazioni fuorvianti. In molti, infatti, erano convinti di poter entrare legalmente in Polonia grazie al visto rilasciato dalle rappresentanze diplomatiche bielorusse, cosa non vera.
Una volta giunti a Minsk, i migranti vengono accompagnati dalle forze di sicurezza verso il confine con la Polonia e lasciati nella “terra di nessuno”. I migranti, così, si trovano impossibilitati a tornare in Bielorussia o a raggiungere l’Unione europea. Da un lato, vengono bloccati dalla strumentalizzazione di Minsk, in violazione di ogni principio del diritto internazionale; dall’altro, dai respingimenti effettuati dalla Polonia, che nega l’accoglienza stabilita dal codice europeo in materia anche a quei pochi che riescono a superare il confine e che avrebbero diritto alla richiesta d’asilo.
In tutto ciò, tra i Paesi che vantano un’alta incidenza di propri cittadini tra i migranti, ci sono la Siria e l’Iraq, soprattutto con le loro componenti curde. Gli aeroporti delle città del Kurdistan iracheno – Erbil, Shiladze e Suleymaniyya – sono stati per mesi gli snodi principali per il trasporto di migranti verso Baghdad, Damasco e poi Minsk. L’Iraq si è dimostrato celere, in una situazione nazionale tutt’altro che semplice, nel prendere provvedimenti come la sospensione dei consolati bielorussi (e dei loro visti) e la soppressione dei voli verso Minsk. Tuttavia, l’impossibilità di restare in una regione devastata, porta a pensare che, chiusa una tratta, ne verrà stabilita un’altra.
Nell’occhio del ciclone: l’Iraq tra crisi climatica e conflitti socio-politici
Le ragioni per abbandonare l’Iraq sono tante. Negli ultimi dieci anni, il Paese ha subìto un notevole peggioramento delle condizioni di vita. Non si tratta solo dei conflitti armati che caratterizzano la realtà irachena – come le violenze settarie e confessionali subìte dalla popolazione. La crisi climatica ha accelerato il processo di corrosione sociale ed economica che fa poco ben sperare per il futuro del Paese.
Secondo la Banca Mondiale, l’Iraq è il quinto Paese al mondo per effetti subìti dal cambiamento climatico, soprattutto per quanto riguarda la desertificazione, la salinizzazione delle acque, il dissesto idrogeologico, l’affievolimento delle risorse idriche disponibili e le catastrofi naturali come tempeste di sabbia e inondazioni (in crescita altalenante dal 1980). Se da un lato la desertificazione, causata dalle scarsità di precipitazioni e dall’aumento delle temperature, diminuisce la disponibilità di terreni coltivabili ponendo a rischio di carestia e malnutrizione la popolazione; dall’altro, la salinizzazione, causata dall’innalzamento del mare che porta le acque saline a inquinare le falde dell’entroterra e ad aumentare la salinità del suolo, contribuisce ulteriormente all’erosione delle terre arabili e pone a rischio diretto parte della popolazione: solo nel 2018 a Bassora (seconda città dell’Iraq per popolazione), 118 mila persone sono state ricoverate per malori legati all’uso di acqua non potabile ad alta concentrazione salina. Altre catastrofi naturali di origine antropica, come frane e alluvioni, hanno reso inabitabili diverse aree del Paese spingendo le popolazioni locali a migrare all’estero o verso le grandi città, o a competere a livello comunitario per delle risorse sempre più scarse. Le dirette conseguenze di questo processo sono le violenze settarie e confessionali nelle aree in cui curdi, arabi sunniti e arabi sciiti convivono, o l’urbanizzazione crescente che porta allo spopolamento delle aree rurali e al sovraffollamento di quelle urbane (con la creazione di nuove sacche di disoccupazione, povertà e condizioni abitative inumane).
Inoltre, se il cambiamento climatico ha giocato un ruolo di primaria importanza nel peggioramento delle condizioni di vita degli iracheni, anche le questioni geopolitiche regionali hanno fatto la loro parte. Da anni, è in corso uno scontro a livello diplomatico tra Baghdad e gli Stati confinanti, soprattutto Iran e Turchia, accusati di progettare la costruzione di dighe e impianti di irrigazione senza considerare gli effetti sugli iracheni. I tre Paesi, al momento, non hanno un accordo esplicito sulla suddivisione delle acque e affrontano le conseguenze del cambiamento climatico provando a garantire alle rispettive popolazioni più risorse idriche possibili, senza preoccuparsi dello squilibrio regionale. Proprio nel Kurdistan iracheno, le conseguenze si aggravano di anno in anno: nel biennio 2020-2021, le acque del Tigri, che di solito fluiscono nella regione a un ritmo di 600 metri cubi al secondo, hanno registrato un’ affluenza tra i 300 e i 320 metri cubi; mentre, le acque nelle due dighe presenti nella regione autonoma sono ai minimi storici, con gravi ripercussioni a livello energetico.
Secondo diversi studi, inoltre, l’inquinamento porterà a un aumento delle temperature di circa 2.2 C° entro il 2050 e a una diminuzione delle precipitazioni di circa il 25% nello stesso anno. Infatti, secondo i dati del portale informativo Our World in Data, nel 2019 l’Iraq produceva l’8% delle emissioni mondiali di metano (generate principalmente dalla combustione dei rifiuti), lo 0,5% delle emissioni di diossido di carbonio (legate all’attività industriale del Paese), mentre la produzione pro-capite di emissioni di gas serra sono superiori alla media, sfiorando le 5 tonnellate annuali. Uno scenario destinato ad aggravarsi vista l’importanza data alle politiche ambientali da parte di Baghdad, interamente concentrata sul raggiungimento degli obiettivi socio-economici in termini di occupazione e diversificazione economica, che fanno preludere a un peggioramento delle condizioni climatiche e della qualità dell’aria nel Paese.
Siria: un decennio che nega ogni speranza
Se nel caso siriano, il conflitto civile scoppiato nel 2011 rimane la causa principale per emigrare dal Paese. Tuttavia, le prospettive di pacificazione sembrano assottigliarsi maggiormente se si considera la situazione climatica. La popolazione della Siria è passata dai 3 milioni circa censiti nel 1950 ai più di 22 milioni del 2012. Nel corso dei decenni, per far fronte a un tale aumento demografico, il regime degli Assad, Hafiz prima e Bashar dopo, ha implementato ambiziose politiche agricole che hanno portato a una pessima gestione delle acque disponibili. Con l’intento di usare la produzione agricola come strumento di propaganda e di autosufficienza alimentare, la crescita del settore ha generato una costante richiesta di risorse idriche impossibile da soddisfare a lungo termine, considerato che il 60% delle acque disponibili in Siria sono generate da fonti aldilà dei propri confini – come nel caso del Tigri, dell’Eufrate e del Khabur, che nascono in Turchia – e quindi in balia delle politiche di Ankara. La disponibilità idrica ha poi avuto ovvie ripercussioni anche a livello geopolitico, portando la Siria a scontrarsi più volte con gli Stati confinanti per la ripartizione delle acque del Giordano.
Proprio la poco lungimirante gestione della acque del regime di Assad, è stata tra le motivazioni che hanno esacerbato la già esistente spaccatura sociale ed etnica che ha portato allo scoppio del conflitto civile: decenni di politiche neoliberali, demografiche e propagandistiche della famiglia Assad si sono concluse con un peggioramento delle condizioni della popolazione rurale e la carestia del quinquennio 2006-2010, in cui il raccolto di grano diminuì del 40% rispetto ai decenni precedenti. È quindi appurato il legame tra conflitto armato e crisi climatica. Proprio la guerra attualmente in corso ha danneggiato le infrastrutture idriche presenti nelle aree a sud e nord-est della Siria. Come conseguenza, il 90 per cento della popolazione non ha accesso diretto all’acqua (dati Onu).
Anche nel caso di un’augurata cessazione del conflitto, sia da parte delle fazioni interne sia da parte degli attori internazionali coinvolti, le prospettive climatiche e di sviluppo del Paese non lasciano presagire un futuro agiato per la popolazione siriana, tra le più rappresentate nelle migrazioni a livello globale.
Fonti e approfondimenti
Bruneau C., Plucinska J., & Abi Nader Y., “How Minsk became a destination for migrants travelling as tourists”, Reuters, 16 novembre 2021.
Gleik P., “Water, Drought, Climate Change, and Conflict in Syria”, Pacific Institute Journal, luglio 2014.
McCarron L., “The Last of the Marsh Arab”, Noema, 19 ottobre 2021.
Valensi C., Efron S., & Noach K., “A Decade of War in Syria: Between Climate Change and Political Stability”, INSS inside, n° 1449, 24 maggio 2021.
Editing a cura di Carolina Venco
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