“Un’Europa che protegge”: l’UE e il controllo degli investimenti esteri

I fondi europei sono un'opportunità che l'Italia non sfrutta
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Da aprile 2019, l’Unione Europea avrà un meccanismo per monitorare gli investimenti esteri in entrata. Prima destinazione globale di Investimenti Esteri Diretti (IDE, o FDI in inglese) nel 2015 – con 5.7 triliardi di dollari, davanti a USA e Cina – l’UE è storicamente aperta ai capitali esteri: si tratta, dunque, di un cambiamento significativo.

Già nel 2015, la Commissione aveva avanzato una serie di proposte per trasformare e rinforzare la politica commerciale dell’UE. Nel discorso sullo stato dell’Unione del 2017, poi, Jean-Claude Juncker aveva rilanciato l’idea di un’ ”Europa che protegge” i cittadini e le imprese, anche negli scambi commerciali.

Proprio in questa sede, Juncker aveva proposto un quadro comune per gli investimenti, che avrebbe assicurato trasparenza e permesso all’Unione di garantire la propria “sicurezza collettiva”. L’iniziativa ha ricevuto l’immediato supporto di Francia, Germania e Italia; altri, come il Regno Unito, si sono opposti, sostenendo che l’iniziativa andasse contro il principio di apertura al libero scambio.

I negoziati sono stati particolarmente brevi rispetto agli standard dell’Unione: Parlamento, Commissione e Consiglio hanno raggiunto un accordo politico dopo poco più di un anno, nel novembre 2018. Il Parlamento ha approvato il regolamento lo scorso febbraio, e il voto positivo del Consiglio è arrivato il 5 marzo.

Come funziona il nuovo framework?

Diversi Paesi, tra cui gli Stati Uniti, hanno un meccanismo di controllo degli investimenti esteri. Negli USA, il Committee on Foreign Investment in the United States (CFIUS) esamina e approva tutti gli investimenti esteri nel Paese e ha il potere di rigettare le proposte. Diversamente, il meccanismo europeo non è vincolante.

Il regolamento stabilisce un regime di controllo congiunto tra Stati membri e le istituzioni comunitarie. Lo Stato che riceve una proposta d’investimento ha l’obbligo di notificarla alla Commissione qualora questa abbia potenziali implicazioni per la sicurezza o l’ordine pubblico degli Stati membri, o dell’Unione del suo complesso.

Entro 15 giorni dalla notifica, gli altri Stati possono inviare commenti e la Commissione può esprimere un parere non vincolante, in quanto la decisione spetta allo Stato interessato. Tuttavia, se questo sceglie di discostarsi dalla posizione della Commissione, deve motivare la propria posizione.

Il procedimento congiunto tutela la sovranità degli Stati, creando allo stesso tempo un meccanismo di controllo coordinato con regole e principi condivisi. Il regolamento rispetta le specificità nazionali; stabilisce tuttavia alcune indicazioni che gli Stati membri devono seguire, qualora decidano di dotarsi di un sistema proprio. Ciò è quanto mai necessario, alla luce del fatto che solo 14 Stati hanno un sistema di controllo nazionale e alcuni sono ancora in procinto di adottarlo.

La Cina: un investitore ingombrante

Lo scopo principale del nuovo meccanismo, dunque, è equilibrare l’apertura agli investimenti con la difesa degli interessi fondamentali. Il regolamento, naturalmente, non cita alcuno Stato nello specifico, ma gli occhi di tutti sono puntati sulla Cina – presenza sempre più ingombrante nei mercati internazionali.

Nel valutare la proposta d’investimento, infatti, Commissione e Stati membri devono valutare:

  • se l’investitore estero sia controllato da un governo straniero, in modo diretto o indiretto;
  • se l’investitore sia già stato coinvolto in “attività che incidono sulla sicurezza o sull’ordine pubblico” di uno Stato membro;
  • se vi siano rischi di attività illegali o criminali.

Vista la forte presenza di imprese statali tra gli investitori cinesi (anche se il privato è in ascesa), nonché le numerose controversie sulla natura di alcuni investimenti, è difficile non pensare che Pechino sia tra gli obiettivi principali del nuovo meccanismo.

Attualmente, gli IDE cinesi in UE sono una proporzione ridotta rispetto ad altri partner – circa il 2% del totale, mentre gli USA detenevano il 40% nel 2015. Ciò che più impressiona degli investimenti cinesi, tuttavia, non è tanto la quantità, ma la rapida crescita: all’inizio degli anni Duemila, l’investimento cinese nell’UE era praticamente inesistente; nel 2014, ammontava a 14 miliardi di euro.

I principali beneficiari sono Regno Unito, Francia, Germania e Italia, soprattutto tra 2000 e 2014. Più di recente, gli investimenti si sono diversificati: il Benelux (Lussemburgo, Belgio e Paesi Bassi) e i Paesi scandinavi sono in crescita, così come l’Europa centrale e orientale.

Negli ultimi anni, l’UE ha più volte lamentato la chiusura della Cina al capitale estero, contrapposta alla tradizionale apertura dell’Unione. Ciò impedisce agli investitori europei di penetrare nel mercato cinese quanto vorrebbero, mentre lascia campo libero a Pechino, che non si è fatta sfuggire l’occasione. La crisi del 2008 e la crisi del debito degli anni successivi hanno indebolito le economie europee, molte delle quali hanno accolto a braccia aperte i capitali cinesi.

La protezione dei settori critici

Come accennato in precedenza, il nuovo meccanismo di screening riguarda gli investimenti in alcuni settori sensibili:

  • Infrastrutture critiche”, fisiche o virtuali (ad es. energia, trasporti, comunicazioni, servizi finanziari);
  • Tecnologie critiche e prodotti a duplice uso” (tra cui robotica, cybersecurity, tecnologie aerospaziali e di difesa);
  • Sicurezza nell’approvvigionamento di fattori produttivi critici” (come energia e materie prime);
  • Accesso a informazioni sensibili”, o capacità di controllare queste informazioni;
  • Libertà e pluralismo dei media”.

Proprio in questi settori, negli ultimi anni, si sono concentrati i capitali cinesi. Nel 2009, la compagnia cinese COSCO ha ottenuto una concessione di 35 anni sul porto del Pireo, in Grecia, al prezzo di 4,3 miliardi di euro. Altri investimenti meno noti includono l’aeroporto di Francoforte (308 milioni) e il porto di Rotterdam (125 milioni).

Anche la presenza nel mercato automobilistico è in espansione: nel 2010, la Zheijiang Geely Holding Group ha acquistato la Volvo per 1,5 miliardi di euro; in Francia, la Dongfeng Motors e il governo francese detengono ciascuno il 14% delle azioni della Peugeot.

Più di recente, i capitali si sono mossi verso nuovi settori, come l’alta tecnologia. Il cambiamento riflette la nuova strategia economica della Repubblica Popolare, chiamata Made in China 2025. Il piano ha l’obiettivo di creare una “rivoluzione della qualità” nell’industria manifatturiera nazionale, trasferendo know-how e tecnologie dai Paesi più all’avanguardia (principalmente USA e Paesi europei) in cambio di capitali.

La strategia suscita preoccupazione negli Stati membri dell’UE, i cui vantaggi continuano a erodersi di fronte all’avanzata di Pechino. In molti cercano garanzie per la produzione nazionale, a partire dalla tutela della proprietà intellettuale; ai fattori economici si aggiungono, poi, rischi per la sicurezza e il controllo delle informazioni.

Cosa possiamo aspettarci?

Dopo più di dieci anni di crescita costante, gli investimenti cinesi nell’UE sono calati nel 2017 e 2018. Il dato riflette un trend globale nella politica degli investimenti cinese – meno permissiva che in passato – ma anche il nuovo approccio dell’UE.

Il 2018, infatti, è stato il primo anno in cui una transazione cinese (Leifeld, azienda tedesca che produce macchine ad alta tecnologia) è stata bloccata, mentre altre sono sospese in attesa di verifiche. Anche se il nuovo framework entrerà in vigore solo ad aprile, gli Stati membri si sono già mobilitati – istituendo o rinnovando i meccanismi di controllo nazionali, o intensificando il dialogo e la coordinazione a livello europeo.

Il meccanismo avrà, presumibilmente, un impatto negativo sugli investimenti cinesi. Anche se non vincolanti, i criteri usati per definire gli investimenti “a rischio” sono abbastanza generali da consentire un’interpretazione ampia del regolamento.

Inquadriamo, però, l’iniziativa nel contesto più ampio delle relazioni sino-europee. Il dialogo economico e politico prosegue, anche se a rilento, per stabilire delle regole condivise e garantirne il rispetto. Dal 2013, UE e Cina stanno negoziando un Accordo Unico sugli Investimenti, che rimpiazzerebbe gli accordi bilaterali tra Pechino e i singoli Stati membri. La politica dell’Unione sembra dunque seguire due direttive:

  • equilibrare l’apertura commerciale con la protezione degli interessi, economici e strategici;
  • consolidare una posizione unica a livello di Unione Europea, arginando le iniziative unilaterali degli Stati membri.

Inoltre, l’UE dovrà valutare la posizione degli Stati Uniti. Da un lato, l’attrito tra USA e UE (e tra USA e Cina) porterà probabilmente Pechino a reindirizzare parte dei propri capitali verso l’Europa. Dall’altro, l’UE potrebbe essere il terreno di scontro nella prossima sfida tra Cina e USA.

L’implementazione della rete ultraveloce 5G, infatti, richiederà la posa di nuove reti, e l’industria cinese – in particolare Huawei – è in vantaggio rispetto a quella statunitense. Gli USA, tuttavia, hanno dalla loro il peso politico e l’influenza all’interno della NATO – fattori decisivi soprattutto nell’Europa centro-orientale.

Con le elezioni europee alle porte, la questione è momentaneamente rimandata. Ma la presenza e la possibile espansione di Huawei nelle reti di comunicazione dell’UE saranno un banco di prova importante nei prossimi mesi – sia per il nuovo meccanismo di controllo, che per la coesione dell’Unione.

Fonti e approfondimenti

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