Il 2020 non ha portato la fine del conflitto in Siria. I combattimenti proseguono nel governatorato nord-occidentale di Idlib, ultima roccaforte nelle mani dei gruppi ribelli antigovernativi, e la minaccia jihadista è tutt’altro che sopita. Se si osserva la situazione sul campo, circa il 70% del Paese è tornato ufficialmente sotto il controllo di Bashar al-Assad, al potere dal 2000, quando ereditò il “trono” dal padre Hafez, fondatore e guida del regime alawita per trent’anni. Al contempo, crisi economica e pandemia hanno aggravato un quadro già di per sé fortemente compromesso.
Il nodo del governatorato di Idlib
Il governatorato di Idlib rappresenta l’ultima delle quattro “de-escalation zones” (insieme a Homs-Hama, Daraa’ e Ghouta) create, a inizio 2017, nella cornice del Processo di Astana. L’accordo consentì di ristabilire un canale di dialogo tra regime e opposizione e rese possibile a Iran, Russia, Turchia e parti siriane di concordare quattro aree in cui la cessazione delle ostilità tra ribelli e forze governative avrebbe dovuto costituire la premessa per il ritorno di rifugiati e sfollati interni.
Il compromesso, raggiunto ufficialmente a Sochi solo nel settembre 2018, prevedeva inoltre che Mosca frenasse ogni nuova offensiva nell’area e che Ankara si adoperasse per separare sul campo i ribelli più moderati da gruppi jihadisti come, per esempio, l’“Organizzazione per la conquista del Levante” (in arabo, Hayʼat Taḥrīr al-Shām), erede dell’ex Fronte al-Nusra e declinazione siriana di al-Qaeda. Tuttavia, nell’ultimo anno, il fallimento di Ankara ad assolvere tale compito è stato usato come giustificazione per frequenti violazioni della tregua da parte delle forze del regime siriano sostenute dall’aviazione russa.
L’applicazione della tregua di Sochi è risultata sin da subito problematica, a fronte delle numerose operazioni militari turche condotte nell’area. Per Ankara la presa di Idlib significava conservare la gestione di un importante avamposto, non solo per impedire la formazione di una fascia territoriale controllata dal Partito curdo dell’unione democratica (Pyd), che la Turchia considera un’organizzazione terroristica, ma anche per favorire il ritorno nelle aree occupate dalle forze turche dei siriani rifugiati in Turchia.
In tale contesto, l’ultima avanzata turca nel nord della Siria, a ottobre 2019, e il concomitante ritiro delle truppe statunitensi hanno spinto l’esercito governativo a intraprendere, da dicembre, un’offensiva militare contro i ribelli, volta a evitare un ulteriore consolidamento del controllo turco nell’area. Dopo pochi mesi di relativa tranquillità, lo scorso primo marzo la Turchia ha lanciato l’operazione “Scudo di Primavera”, come rappresaglia per il massiccio bombardamento che l’esercito turco aveva subito da parte delle forze del presidente siriano il 27 febbraio.
Il 5 marzo è entrata in vigore una tregua ufficiale, stabilita a seguito di un accordo tra Turchia e Russia. L’intesa prevede la cessazione di ogni azione militare e l’attivazione di un coordinamento finalizzato alla creazione di un corridoio di sicurezza lungo sei km a nord e sei km a sud dell’autostrada M4 (che collega Latakia, città sulla costa mediterranea, all’autostrada M5 tra Aleppo e Damasco). Nonostante la riduzione degli attacchi negli scorsi mesi, la situazione non si è mai del tutto placata e sembra, anzi, stando ai report dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha), che nelle ultime settimane abbia avuto luogo una recrudescenza delle ostilità, a fronte di una situazione umanitaria che rimane drammatica.
La rinascita dello Stato islamico
In Siria orientale, dove imperversa la crisi socioeconomica e ora anche l’epidemia di Coronavirus, è riemersa anche la minaccia terroristica dello Stato islamico (Is). Attacchi, bombardamenti e imboscate hanno riguardato soprattutto l’area dell’Eufrate occidentale, che continua a essere il teatro operativo di quel che rimane dell’Is dopo la sconfitta a Baghuz, l’ultimo avamposto territoriale formalmente sotto controllo dei jihadisti fino alla primavera del 2019.
Nella regione la minaccia posta dall’Is non è mai stata del tutto sconfitta. Di fatto, a partire dallo scorso giugno, lo Stato islamico ha lanciato una campagna di attentati ai danni dei campi e dei raccolti. Queste azioni sono volte a togliere alla popolazione locale la principale fonte di reddito, rendendola vulnerabile e, quindi, più esposta alla propaganda jihadista. Sin dall’inizio del 2020, secondo i dati riportati dal Middle East Institute, sono stati registrati più di centosettanta attacchi nel triangolo di territorio tra Raqqa, Hama e Deir Ezzor, dove il gruppo sembrerebbe essersi nuovamente radicato. Tra i principali obiettivi vi sono state le Fds (Forze democratiche siriane) sostenute dalla comunità internazionale e l’esercito governativo. Decisivo è stato l’intervento dell’aviazione russa a sostegno del regime damasceno, che ha attaccato le postazioni dei miliziani fino a un parziale ritiro dell’offensiva jihadista.
La Siria in bilico tra sanzioni, crisi economica e pandemia
Dal punto di vista economico, la popolazione siriana continua a soffrire le conseguenze di una profonda crisi, aggravatasi negli ultimi mesi anche a causa dell’imposizione di nuove sanzioni da parte di Washington, attraverso il Caesar Syria Civilian Protection Act dello scorso 17 giugno. Il deprezzamento della sterlina siriana rispetto al dollaro Usa, l’instabilità della lira libanese e il calo del potere d’acquisto continuano, inoltre, ad avere un impatto negativo sulle condizioni di sicurezza alimentare e sui mezzi di sussistenza nella regione.
Nel mentre, la popolazione civile è stata chiamata a fare i conti con la pandemia da Covid-19. I dati relativi ai contagi non sono accurati, poiché si stima che i casi non identificati siano molti più di quelli tracciati, considerata anche la difficoltà nel reperire tamponi affidabili. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), solo il 50% degli ospedali in Siria è pienamente funzionante, a causa della carenza di attrezzature, medicinali e personale, nonché dei danni alle strutture.
In tale contesto, lo scorso 11 novembre Damasco ha ospitato la “Conferenza internazionale sui rifugiati siriani”, organizzata dalle autorità siriane e russe per discutere della ricostruzione post-bellica del Paese e delle misure per il ritorno di sfollati e rifugiati presso le proprie regioni di appartenenza. Per il regime alawita, infatti, il ritorno dei profughi e il tema della ricostruzione sono al centro della strategia di recupero della legittimità interna e internazionale. Tra gli Stati partecipanti vi erano Cina, Iran, Libano, Emirati Arabi Uniti, Pakistan e Oman.
L’Onu vi ha preso parte in qualità di osservatore, mentre Unione Europea, Stati Uniti e Turchia hanno deciso di non parteciparvi, sottolineando l’assenza di condizioni favorevoli a un ritorno dei rifugiati. Secondo l’Agenzia per i Rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr), i siriani che dall’inizio del 2013 al marzo 2020 hanno lasciato il Paese sono più di cinque milioni e mezzo; a questi numeri vanno poi aggiunti i sei milioni e mezzo di persone sfollate (IDP) all’interno della Siria.
Gli sviluppi recenti della crisi e le prospettive per l’anno che verrà
Lo scorso 30 novembre si è svolto il primo colloquio del Comitato costituzionale sotto l’egida delle Nazioni Unite, volto a redigere una Costituzione siriana, con il fine ultimo di porre fine al conflitto. Una nuova costituzione rappresenta la principale richiesta dell’opposizione siriana, la quale sostiene la necessità di una costituzione ex-novo che riduca i poteri del presidente siriano. Dall’altro lato, i rappresentanti del regime mirano a modificare il documento già esistente, in vigore dal 2012, senza alterare lo status quo, lasciando intatti i poteri assoluti conferiti al presidente, soprattutto in termini di supervisione dell’esercito e dei servizi di sicurezza.
Il 2021 sarà poi l’anno della rielezione, assai probabile, di Bashar al-Assad per un nuovo mandato presidenziale settennale, che scadrà nel 2028. Allo stato attuale, risulta difficile ipotizzare che le parti coinvolte riescano, in pochi mesi, a trovare un’alternativa valida all’attuale presidente. D’altronde, alle elezioni parlamentari dello scorso 19 e 20 luglio, il partito Ba’th e i movimenti politici alleati al regime hanno ottenuto la maggioranza, con 177 seggi su 250. Le elezioni, le terze dal 2011, rimandate due volte a causa della pandemia, si sono svolte, per la prima volta, anche nelle ex roccaforti dell’opposizione, come la regione di Ghouta e il sud della provincia di Idlib. Tuttavia, l’opposizione in esilio e la comunità internazionale hanno bollato la tornata elettorale come una farsa.
Alla vigilia del 2021, a quasi dieci anni dall’inizio della crisi siriana, ancora nessuno degli attori coinvolti nel conflitto sembra in grado di offrire soluzioni politiche realistiche che soddisfino ciascuna delle parti coinvolte e aiutino a pacificare un Paese che sanguina da troppo tempo.
Fonti e approfondimenti
Matteo Colombo, “La Siria tra stallo militare, crisi economica e cambiamenti politici“, ISPI, 25/09/2020.
Ayman Abdel Nour, “Syria’s 2020 parliamentary elections: The worst joke yet“, Middle East Institute, 24/07/2020.
Elizabeth Dent, “US Policy and the Resurgence of ISIS in Iraq and Syria“, Middle East Institute, 21/10/2020.
Ishtar Al Shami, “The Syrian People and the Implications of Caesar’s Law in the Siege of Assad“, Washington Institute for Near East Policy, 14/08/2020.
OCHA, Syrian Arab Republic: COVID-19 Humanitarian Update, 30/11/2020.
“As Syrian conflict enters 10th year, ‘brutal truth’ is, there is“, UN News, 18/03/2020.
Editing a cura di Niki Figus.