Si chiude con questo articolo il progetto “I volti delle donne d’Africa”, un viaggio alla scoperta di diversi aspetti della vita delle donne africane: salute, educazione, mondo del lavoro e politica. Tutti temi interconnessi e che è fondamentale considerare perché più della metà della popolazione africana è composta da donne e più di un miliardo degli abitanti del nostro pianeta sono africani.
Dopo aver compreso i principali ostacoli alla partecipazione politica femminile, in questo articolo analizziamo alcune delle strategie adottate dagli Stati e dalla società civile per farvi fronte.
Il meccanismo delle quote
Sulla spinta della Conferenza delle Nazioni Unite sulle donne del 1995, per incentivare il coinvolgimento delle donne in politica, molti Paesi africani hanno adottato il meccanismo delle quote, stabilendo, attraverso Costituzione o leggi, l’obbligo di garantire nelle istituzioni una quantità minima di donne, spesso compresa tra il 30 e il 40% dei membri. Oggi, le quote sono presenti nel 73% degli Stati del continente.
Le strategie applicate sono diverse, anche a seconda del sistema elettorale. L’obbligo di rispettare un numero minimo di candidati per genere si riscontra sia nel sistema proporzionale che in quello maggioritario. Ma, in quest’ultimo, dato che chi ottiene la maggioranza dei voti nelle circoscrizioni uninominali viene eletto, i partiti tendono a candidare gli uomini nelle circoscrizioni dove la vittoria è quasi certa, lasciando alle donne la competizione in quelle dove si rivelano più deboli. Per far fronte a ciò, alcuni Paesi riservano un numero prefissato di circoscrizioni esclusivamente a candidature femminili.
Anche con un sistema proporzionale, è possibile che venga fissata una quota di seggi destinata esclusivamente alle donne e distribuita proporzionalmente tra i partiti, sulla base dei voti ottenuti. Nel caso di liste bloccate, dove l’ordine dei candidati è stabilito dal partito e spesso le posizioni di vertice sono occupate da uomini, viene applicato il metodo “zebra”, che impone di alternare un nome maschile e uno femminile nella costruzione delle liste. Ciò, a volte, è affiancato anche dall’obbligo di rispettare percentuali minime di donne capolista.
Alcuni Paesi non prevedono quote costituzionali o legislative, ma non è raro che i partiti di maggioranza e opposizione decidano di adottare volontariamente il sistema delle quote. Se è il partito di maggioranza a introdurre quote, l’impatto in termini di rappresentanza è significativo: da quando, nel 2005, il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (EPRDF) ha deciso di riservare il 30% delle candidature alle donne, la rappresentanza parlamentare femminile è cresciuta dall’8% del 2000 al 39% del 2015. L’impatto è minore nel caso dei partiti di opposizione, soprattutto se il partito al potere è dominante.
Un’eccezione di successo alla tendenza africana a introdurre quote sono le Seychelles, dove, a seguito del voto del 2016, le donne costituivano il 48% dei membri dell’Assemblea nazionale. Grazie a un buon livello di istruzione e all’essere spesso capofamiglia, molte donne mostrano leadership e ottengono la fiducia degli elettori. Data la loro capacità di competere con gli uomini, la fluttuazione nella rappresentanza femminile, dovuta all’assenza di garanzie costituzionali o legislative, è accettata come frutto di un’equa sfida democratica nella quale le donne sono in grado di riscattarsi. Nel 1983, ad esempio, ottennero il 24% dei seggi, per poi perderne l’8% quattro anni dopo, ma raggiungere, nel 1991, il 46%.
Critiche al sistema delle quote
Come in molte altre aree del mondo, anche in Africa, il dibattito sull’utilizzo delle quote è aperto e presenta diverse posizioni.
Alcuni critici sostengono che siano ingiuste a livello individuale, poiché impediscono a priori la partecipazione alle elezioni di alcuni candidati uomini. Si trattava dell’argomentazione portata avanti dai candidati in Lesotho, dove nel 2006 il 30% delle circoscrizioni uninominali fu riservato esclusivamente alle donne. C’è, però, anche chi controbatte che il sacrificio individuale garantisce maggiore equità sociale, permettendo la rappresentanza di un gruppo che, in alcuni Paesi, è ai margini della vita politica.
Altri autori evidenziano che stabilire un numero di seggi da destinare esclusivamente alle donne rischia di mettere in discussione la validità e l’efficacia del loro contributo alle discussioni, poiché considerate meno qualificate e presenti in Parlamento solo grazie alle quote. Per questo, alcune donne sostengono di non aver bisogno di questo meccanismo per ottenere rappresentanza, ma di doverla e poterla raggiungere grazie ai loro meriti.
Le quote, inoltre, incentivano la rappresentanza femminile, stabilendo un numero minimo di donne nelle istituzioni, ma non intervengono sugli ostacoli di fondo – socioeconomici, educativi, di accesso all’informazione e tecnologici – che ne limitano la partecipazione politica.
Ruanda: cosa si nasconde dietro al primato?
A seguito del genocidio del 1994, il 70% della popolazione ruandese – circa 5,5 milioni di persone – era composto da donne. Molte non erano istruite, non possedevano terre e non avevano un lavoro fuori casa, ma da quel momento la questione dei loro diritti iniziò a farsi strada nel dibattito politico. L’equità di genere divenne un principio fondante della nuova Costituzione, che all’articolo 9 stabilisce che tra i parlamentari e coloro che ricoprono cariche dirigenziali nei partiti deve esserci almeno un 30% di donne.
Dai primi anni Duemila, la rappresentanza femminile in Parlamento è aumentata rapidamente. Se prima del genocidio le donne non avevano mai occupato più del 18% dei seggi, nel 2003, ne ottennero il 49%. Di elezione in elezione, le percentuali sono cresciute, posizionando stabilmente il Paese in cima alle classifiche mondiali e oggi, secondo l’International Institute for Democracy and Electoral Assistance (International IDEA), le donne sono ben più della metà dei parlamentari nella camera bassa (61%) e dei ministri (60%).
Tuttavia, il Parlamento manca di indipendenza legislativa e si limita, il più delle volte, ad approvare le iniziative presidenziali. Infatti, la maggioranza delle parlamentari è allineata con le politiche governative e non sviluppa un’agenda autonoma, volta a tutelare i diritti delle donne. Un esempio è il voto favorevole delle legislatrici alla Legge sul lavoro del 2009 che garantisce alle madri un congedo per maternità interamente pagato di sole sei settimane. Costituisce un’eccezione all’incapacità del Parlamento di proporre e approvare autonomamente provvedimenti la legge contro la violenza di genere, che criminalizza il rapimento da parte del marito e crea centri per il sostegno e la cura delle vittime.
La società civile
Sebbene le quote siano lo strumento adottato dalla maggioranza dei Paesi per accrescere la presenza femminile in politica, non è sufficiente solo un framework legale, affiancato dalla volontà politica di attuarlo, ma sono necessari anche un cambiamento dell’atteggiamento sociale ed empowerment femminile. A questo proposito, la società civile, che spesso trova espressione in organizzazioni per i diritti delle donne – attualmente nel contesto africano se ne contano almeno 80 – agisce in modi diversi: educazione al voto, lobbying per la riforma del sistema elettorale e l’introduzione delle quote, formazione e sostegno alle candidate, lotta contro la violenza elettorale, supporto alle donne già in politica e monitoraggio delle elezioni.
Molte organizzazioni della società civile lavorano in sinergia con le comunità economiche regionali nell’implementazione delle loro agende sui diritti della donna. Un esempio è la Southern Africa Gender Protocol Alliance che in Africa australe coordina quindici network di associazioni di donne, impegnati nella promozione del protocollo della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (SADC) sull’equità di genere e che annualmente pubblica un barometro, evidenziando l’avanzamento delle politiche e l’impegno dei Paesi sul tema.
Altre organizzazioni attuano lobbying nei confronti di governi e partiti per la tutela dei diritti politici ed elettorali delle donne, inclusi un bilanciamento di genere tra i candidati e il coinvolgimento femminile nelle posizioni dirigenziali dei partiti. In Madagascar, ad esempio, il National Council of Women ha chiesto l’adozione del sistema “zebra” e ha coordinato un dibattito pre-elettorale tra i candidati presidenziali sulle proposte per incentivare l’equità di genere.
Avere un’istruzione di qualità, saper parlare in pubblico, porsi adeguatamente e riuscire ad attirare consenso durante la campagna elettorale sono altri fattori determinanti per una solida candidatura, ma spesso le donne non dispongono di adeguate conoscenze e competenze. In alcuni casi, sono i partiti stessi a formarle sull’organizzazione delle campagne elettorali e sulla gestione del rapporto con i media. In molti altri casi, questo compito spetta a organizzazioni, come il Forum of African Women Educationalists (FAWE), una ONG nata nel 1992 dall’idea di ministre dell’Educazione africane e oggi attiva in 33 Paesi, con l’obiettivo di migliorare l’educazione delle ragazze, in quanto prerequisito fondamentale per la partecipazione politica.
Le difficoltà della Nigeria
Nel 2006, la Politica di genere nazionale nigeriana aveva stabilito la necessità di raggiungere l’equità tra uomini e donne in ambito economico, sociale e politico, raccomandando l’introduzione di una quota del 35% nelle istituzioni politiche. La mancata realizzazione di ciò, unita al persistere di molti ostacoli – tra cui mancanza di risorse economiche, istruzione limitata, struttura sociale patriarcale e assenza di volontà dei partiti – fa della Nigeria l’ultimo Paese africano per rappresentanza parlamentare femminile. Secondo International IDEA, oggi, solo il 3,6% dei membri della camera bassa e il 7% di quella alta sono donne.
In questo scenario, con l’approssimarsi delle elezioni del 2023, le organizzazioni della società civile si stanno mobilitando per portare il problema all’attenzione dei decisori politici e sostenere le candidature femminili. Uno dei movimenti più attivi è ElectHER che attraverso una nuova strategia di comunicazione, lo sviluppo di competenze, del capitale umano e il sostegno finanziario appoggia la candidatura di mille donne al voto del prossimo anno. Lo slogan, “Decide*Run*Win”, è una sintesi della sua filosofia: rendere le donne forti, in grado di decidere autonomamente, competere efficacemente e vincere la sfida elettorale.
Una sfida che ElectHER combatte in Nigeria, ma che interessa molte altre donne nel continente africano.
Fonti e approfondimenti
Agbalajobi Damilola, “Nigeria has few women in politics: here’s why, and what to do about it”, The Conversation, 03/05/2021.
Baldez Lisa, 2006. “The Pros and Cons of Gender Quota Laws: What Happens When You Kick Men Out and Let Women In?”, Politics & Gender, vol. 2, issue 1.
ElectHER, 2022. ElectHER, Homepage.
International Institute for Democracy and Electoral Assistance (International IDEA), 2021. “Women’s Political Participation: Africa Barometer 2021”, Stoccolma.
Musau Zipporah, “African Women in politics: Miles to go before parity is achieved”, Africa Renewal, 08/04/2019.
Ndoma Stephen, 2017. “Zimbabweans See Progress on Women’s Rights, Applaud Government Efforts to Promote Equality”, AfroBarometer, n. 181.
Southern Africa Gender Protocol Alliance, 2022. SADC Gender Protocol Alliance.
Turiankskyi Yarik, Chisiza Matebe, 2017. “Lessons from Rwanda: female political representation and women’s rights”, South African Institute of International Affairs.
Oluyemi Oloyede, 2019. “Monitoring participation of women in politics in Nigeria”, National Bureau of Statistics (NBS), Abuja.
Abbot Pamela, Malunda Dixon, 2016. “The Promise and the Reality: Women’s Rights in Rwanda”, African Journal of International and Comparative Law, 24 (4), 561-581.
Editing a cura di Beatrice Cupitò
Be the first to comment on "I volti delle donne d’Africa: la voce delle donne africane in politica (seconda parte)"