Il Nicaragua è il Paese più esteso e più povero dell’America centrale, schiacciato tra i due oceani, l’Honduras e la Costa Rica. La sua storia è segnata da ingerenze straniere. Alla conseguente instabilità politica si aggiungono quella fisica, determinata dai ricorrenti terremoti e uragani, e quella sociale di un popolo, segnato da forti divari etnico-regionali, che continua a lottare per i propri diritti.
Popolazione
Concentrati nella zona occidentale del territorio, i nicaraguensi sono circa 6,5 milioni, la maggior parte meticci. Il 7% della popolazione è diviso tra sette gruppi indigeni, di cui i più numerosi sono i chorotega e i miskito, e due afro-discendenti: i kriol e i garifuna. Queste minoranze mantengono una forte importanza nelle manifestazioni folcloristiche e alcune preservano lingue proprie, nonostante lo spagnolo sia l’unica lingua ufficiale. Allo stesso tempo, concorrono più del resto della popolazione ad aumentare le cifre della malnutrizione infantile e dell’estrema povertà a livello nazionale.
Come nel resto dell’America latina, mentre il numero dei cattolici continua a essere maggioritario, quello dei protestanti, e soprattutto degli evangelici, vi si avvicina sempre di più.
Cenni storici
Nell’epoca precolombiana, il territorio nicaraguense era scarsamente abitato. L’ipotesi più diffusa sulle origini del nome del Paese è che derivi dal nome del capo degli indigeni nahuas della regione, che nel 1522 accolse i conquistadores in maniera pacifica. Non tutte le popolazioni locali riservarono lo stesso trattamento agli spagnoli, ma l’area entrò in modo progressivo e forzato a far parte del Viceregno di Nuova Spagna, sotto il controllo della Capitaneria del Guatemala. L’economia coloniale girava intorno all’agricoltura e al commercio.
Gli spagnoli non dominarono mai la costa caraibica. I locali miskito fondarono un regno all’inizio del XVII secolo e, nel secolo successivo, si allearono con gli inglesi. Questi instaurarono un protettorato sul regno, consolidando in tal modo la loro presenza nella regione. In cambio, gli indigeni ottennero l’accesso ad armi da fuoco, grazie alle quali dominarono su un vasto territorio.
La Gran Bretagna dovette cedere il territorio alla Repubblica del Nicaragua nel 1860, anche se l’annessione, de facto, avvenne solo alla fine del secolo. La maggior parte degli inglesi residenti si spostarono in Giamaica; tuttavia, persistono tracce della presenza britannica: nei nomi di alcune città costiere, nella presenza della chiesa anglicana e nell’uso dell’inglese, o di suoi vocaboli, nelle lingue delle popolazioni costiere. Molte di queste si riferiscono tuttora al resto degli abitanti del Paese con il termine di “spagnoli”. Oltre a quella inglese, i miskito hanno incorporato nei secoli influenze di altre nazioni europee e africane, presentando ad oggi una peculiare mescolanza biologica e culturale.
Un’indipendenza fragile
Nel 1821, il Nicaragua acquisì l’indipendenza dalla Spagna insieme agli altri Stati dell’America centrale e due anni più tardi formarono la Federazione delle Province Unite, che si disintegrò nel 1838. Di questo esperimento politico il Paese dell’America centrale conservò la bandiera. La nuova repubblica fu da subito segnata da continue lotte tra liberali e conservatori.
La bandiera del Nicaragua – @Crecords – Wikimedia Commons – CC0
Nel frattempo, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti si interessavano sempre più all’America centrale; in particolare al Nicaragua, vista la possibilità di costruirvici un canale interoceanico attraversando i suoi grandi laghi. Le pressioni aumentarono con la scoperta dell’oro in California e la conseguente necessità di recarvisi il più velocemente possibile, senza dovere circumnavigare l’intero continente.
Le potenze anglofone orchestrarono la politica nicaraguense a seconda dei propri interessi: dalla presidenza conquistata nel 1856 dall’avventuriero William Walker, inviato dai liberali statunitensi, alla deposizione armata del progressista liberale Zelaya nel 1909, perché non si piegava agli interessi delle banche del Nord. In seguito, i suoi successori conservatori misero il Paese in una posizione di totale dipendenza economica, e non solo, dagli Stati Uniti: nel 1912, il Paese venne invaso dai marines, al fine di difendere gli interessi commerciali di Washington nella regione. Questa invasione perdurò per ventun anni.
Dall’invasione straniera alla dittatura
Dal 1927, l’opposizione all’occupazione statunitense si radicalizzò e nacque un fronte di rivoluzionari guidati da Augusto César Sandino, che lanciarono attacchi di guerriglia contro l’esercito ritenuto invasore. Nel 1933, sui passi della politica di buon vicinato del neoeletto Roosevelt, si ritirarono i gringos (termine dispregiativo usato in America latina per riferirsi ai nordamericani). L’assassinio di Sandino da parte della Guarda Nacional (forze armate create dai marines in loco) durante le negoziazioni per la pace interruppero il processo e il capo di quest’istituzione, Anastasio Somoza, prese il potere nel 1937.
Iniziò così la durissima dittatura somocista; una vera e propria dinastia, in cui il padre e i due figli di susseguirono nel governo dispotico del Paese fino al 1979. L’opposizione venne repressa, l’amministrazione messa nelle mani di parenti e le risorse locali finirono sotto il controllo di compagnie statunitensi, arricchendo unicamente una ristretta cerchia di nicaraguensi. La famiglia Somoza, con un patrimonio stimato di 400 milioni di dollari l’anno della fine del regime, deteneva un quarto del totale dei terreni coltivabili.
Nel 1972 un forte terremoto colpì la capitale Managua e, oltre alle ventimila vittime e agli innumerevoli danni, scosse anche il regime. Infatti, le pratiche corrotte del governo risaltarono più che mai, nell’ambito della gestione degli aiuti arrivati da tutto il mondo per fronteggiare la catastrofe. Questi fatti fecero crescere l’opposizione e, in particolare, il Frente Sandinista de Liberación Nacional (FSLN). Il confronto con il regime, che tramite la sua fidata Guarda Nacional aveva perpetrato abusi e crimini contro la popolazione per oltre cinquant’anni, sfociò in un conflitto armato.
La Rivoluzione sandinista
Nel luglio 1979 l’ultimo dittatore lasciò il Paese e la Rivoluzione sandinista trionfò. Con i suoi ideali, questa diede per la prima volta fama mondiale alla nazione centroamericana. Le prime riforme dei sandinisti prevedevano nazionalizzazioni e una riforma agraria, che restituì le terre a oltre 60.000 famiglie. Dopo di che, nel 1980, venne lanciata la cosiddetta “Cruzada Nacional de Alfabetización“, che ridusse l’analfabetismo dal 50 al 13% (oggi risalito al 17,5%). Seguì una massificazione dei servizi sanitari pubblici, che permisero lo sradicamento della polio. Ma da lì a poco la Rivoluzione, instaurata su delle basi miste e di non allineamento, dovette trovare il proprio posto nello scacchiere geopolitico internazionale della Guerra Fredda.
Il regime venne infatti sostenuto da Cuba e dai Paesi socialisti. Nei vicini Guatemala ed El Salvador, nel frattempo, erano scoppiate guerre civili, con la presenza di elementi marxisti che già preoccupavano Washington. In questo contesto, all’inizio del 1981, Ronald Reagan, per cui l’URSS era “l’impero del Male”, assunse la presidenza, determinando il destino del Nicaragua. Gli Stati Uniti iniziarono un piano per destabilizzare il Paese: finanziando i contras e gli oppositori locali (che scatenarono una guerra civile), sospendendo gli aiuti economici e, infine, decretando un embargo commerciale. Queste strategie funzionarono e, verso la fine degli anni Ottanta, i sandinisti si videro costretti a negoziare la pace e a indire nuove elezioni.
La fine del regime sandinista
Le elezioni si tennero nel febbraio del 1990, a pochi mesi dalla caduta del blocco sovietico. Trionfò l’opposizione, i contras furono sciolti e il FSLN abbandonò il potere; per tornarci, dal 2007, con la presidenza dell’ex-revolucionario Daniel Ortega.
I conflitti, che causarono oltre 60.000 morti, nonché notevoli danni materiali, esodi e crolli produttivi, insieme alle ripetute catastrofi naturali, hanno frenato a lungo gli sforzi di ricostruzione economica, avviati negli anni Novanta. Si è creato un clima di insicurezza sociale e una diffusa microcriminalità, accompagnate da una persistente impunità.
Economia
Dopo i segni di una lieve ripresa, il Paese vive da tre anni consecutivi una recessione economica e un impoverimento generale. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha stimato che quasi l’80% della popolazione si sostiene con lavori informali, mentre la ricchezza continua a essere altamente concentrata nelle mani di pochi.
Il sistema economico continua a essere legato al passato coloniale e alle monoculture, con il primato nelle esportazioni di materie prime agricole. I principali mercati di destinazione sono gli Stati Uniti e la Cina; quest’ultima, coinvolta in numerosi progetti di sviluppo economico nel Paese, tra cui la costruzione di un canale interoceanico.
Il clima tropicale e i terreni vulcanici fertili permettono cospicue produzioni di canna da zucchero, caffè, frutta e tabacco. Tuttavia, il consumo interno è ben diverso. Una fonte costante di entrate sono le rimesse degli emigrati, che si aggirano intorno a 10% del PIL nazionale. Il settore dell’industria leggera, caratterizzato dal modello delle maquiladoras, è in espansione. Invece, gli avvenimenti recenti hanno frenato la crescita del turismo.
La situazione politica attuale
Dall’aprile 2018, il crescente dissenso interno, le proteste e le violazioni dei diritti umani da parte delle autorità hanno messo altamente in discussione il governo. L’allontanamento del presidente dagli ideali della Rivoluzione, tanto da avvicinarsi a sua volta a una dittatura, è immortalato dalla scritta “Ortega y Somoza son la misma cosa“, che tappezza i muri delle città nicaraguensi. Tuttavia, quel che è successo, e continua a succedere, in Nicaragua è offuscato a livello internazionale dalla crisi venezuelana.
L’attuale gestione della crisi sanitaria mondiale sottolinea, nuovamente, l’inefficienza della dittatura Ortega, che non ha applicato misure di distanziamento sociale.
Relazioni internazionali
Nel 2016, il Nicaragua diede asilo politico all’ex-presidente salvadoregno Mauricio Funes, esponente del FMLN, accusato nel suo Paese di arricchimento illecito. Tuttavia, dal 2018 a questa parte, le relazioni con gli altri Paesi membri dell’Alianza Bolivariana para América (ALBA) e con la sinistra latinoamericana in generale (che sta attraversando un periodo di crisi) sono state intaccate dall’operato del governo di Ortega.
In America centrale il Paese è isolato da certe tendenze. Per motivi storico-sociali, il fenomeno delle maras non vi si è radicato e le sue attuali preoccupazioni politiche e sociali si allontanano, dunque, in parte, da quelle dei suoi vicini del Triangolo Nord. Tuttavia, il Nicaragua a Sud confina con il Paese più ricco della regione, determinando un trend migratorio diverso rispetto al resto della regione: la destinazione principale per i nicaraguensi non sono gli Stati Uniti, bensì la Costa Rica.
La storia del Nicaragua, nonché il suo forte determinismo geografico, ne hanno delineato le attuali condizioni strutturali. Queste continuano a ostacolarne lo sviluppo e l’attuale governo non facilita la situazione, attuando una guerra civile silenziosa, lontana dai riflettori internazionali.
Fonti e approfondimenti:
D. Pompejano, Storia dell’America Latina, 2012
Pueblos Originarios y Afrodescendientes de Nicaragua, URRACAN, 2019
A. Leone “Nicaragua: l’evoluzione del dissenso contro Daniel Ortega”, Lo Spiegone, 22/01/2020
F. Rongaroli “Nicaragua: è esplosa la protesta contro “l’altro Sandinismo””, Lo Spiegone, 10/05/2018
F. Chiappini “Nicaragua vs Stati Uniti: una storia da ricordare”, Lo Spiegone, 27/03/2017