La Comunità internazionale nei Balcani e l’illusione del controllo

DaytonAgreement
US Air Force - Wikimedia commons - Public domain

Nello scorso articolo abbiamo concluso la panoramica storica con il conflitto che si è consumato nei Balcani negli anni ’90. Approfondiamo ora un tema molto delicato: il ruolo della Comunità internazionale nel conflitto e nella sua risoluzione. Ad una guerra in cui si intrecciavano elementi etnici, politici ed economici, la Comunità internazionale non riuscì a dare una soluzione politica, illudendosi di poter controllare una situazione così spinosa senza le forze adeguate o una strategia coerente. Si prenderanno quindi in esame tre scenari in particolare: le missioni delle Nazioni Unite nella Guerra di Bosnia, il processo diplomatico degli Accordi di Dayton e infine l’intervento della NATO nella crisi in Kosovo.

Le missioni ONU durante la Guerra di Bosnia

Il conflitto bosniaco fu il più violento tra quelli che scoppiarono negli stati dell’ex-Jugoslavia. Al momento della dissoluzione, la Bosnia-Erzegovina aveva un governo in cui il potere era condiviso tra le tre etnie principali, riflettendo la composizione etnicamente mista della popolazione che al tempo contava circa 43% di Musulmani, 33% di Serbo-Bosniaci, 17% di Croato-Bosniaci e un rimanente 7% di altre nazionalità (principalmente ebrei, Rom e cittadini con genitori di diversa etnia).

La posizione geopoliticamente strategica della Bosnia, nel cuore della Federazione, aveva attirato l’interesse di Serbia e Croazia, le quali tentarono di assumere il controllo delle zone in cui le proprie etnie erano dominanti. Sull’onda dei referendum in Slovenia e Croazia, che diedero inizio alla dissoluzione della Jugoslavia, nel marzo del 1992, in un referendum boicottato dalla parte Serba della popolazione, circa il 60% degli abitanti si espresse per l’indipendenza. Poco più di un mese dopo i Serbo-Bosniaci aprirono le ostilità, sostenuti dalla JNA (l’Armata popolare jugoslava, al tempo sotto il controllo serbo) e dalle forze militari serbe, dichiarando una “Repubblica serba” che stabiliva il controllo su circa il 60% del territorio. I Croato-Bosniaci presto fecero altrettanto, rifiutando l’autorità del governo bosniaco e dichiarando la propria repubblica al confine croato. Il conflitto si trasformò quindi in una triplice guerra, esponendo i civili delle tre etnie alle atrocità della pulizia etnica.

In questa fase, la comunità internazionale agì attraverso le Nazioni Unite. La missione dei caschi blu nei Balcani era iniziata con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 727 dell’8 gennaio 1992, con l’invio di  una delegazione di 50 ufficiali di collegamento e con la successiva Risoluzione 743 del 21 febbraio 1992, che istituiva la UNPROFOR (United Nations Protection Force). Il compito della missione ONU era sorvegliare i termini del cessate il fuoco siglato a Ginevra nel 1991 tra Serbia e Croazia, al termine della prima fase del conflitto balcanico. Il mandato fu poi esteso alla Bosnia, in un’area in cui non era in atto un accordo di cessate il fuoco e in cui era inefficace procedere con un’operazione di peacekeeping tradizionale. La mission creep (ovvero l’estensione degli obiettivi della missione originaria) era resa manifesta dalla Risoluzione 752 , che allargava l’area d’impiego della forza senza però assegnare le unità necessarie all’assolvimento del compito. La Risoluzione 752 è diventata l’emblema della contraddizione insita nelle forze di pace: non aveva la forza per imporre alcunché.

Da quel momento si susseguirono oltre 150 Risoluzioni analoghe, che gradualmente incrementavano le funzioni di UNPROFOR, fino ad assegnargli il compito di difendere le cosiddette “aree protette” di Sarajevo, Gorazde, Zepa, Srebrenica, Bihac e Tuzla, senza provvedere in modo commisurato i mezzi necessari, materiali e legali, per una protezione effettiva dei civili.

È interessante notare la contraddizione tra la componente umanitaria, e quindi imparziale, e quella coercitiva, necessariamente anti-serba dal momento che le aree protette imponevano una contrapposizione militare contro le forze serbe. Ma tale protezione non riusciva ad essere ferma ed efficace, poiché la gestione della crisi da parte della Comunità internazionale era priva di un obiettivo politico. All’interno del Consiglio di Sicurezza mancava il consenso sulle scelte strategiche, provocando incoerenza ed incapacità di modulare l’escalation nell’uso della forza.

A seguito dei tragici eventi del 1994, ovvero l’attacco al mercato di Sarajevo, la distruzione del ponte di Mostar e l’assedio delle aree protette di Gorazde e Bihac, cominciava a prendere forma un primo coordinamento tra Stati Uniti, Unione Europea e ONU allo scopo di lanciare limitati attacchi aerei attorno a Banja Luka e Goradze. A quest’azione, naturalmente interpretata come uso parziale della forza, i Serbi risposero con la cattura di ostaggi di UNPROFOR e con il blocco degli aiuti umanitari.

In una situazione sempre più delicata, Regno Unito e Francia decisero di costituire una grande unità, denominata RRF – Rapid Reaction Force, per proteggere i caschi blu. Nonostante si trattasse di un’azione insufficiente, costituì il primo segnale del riconoscimento dell’inefficacia della politica adottata fino a quel momento e della necessità di prendere un’altra direzione.

Il vero punto di svolta, che segnò il passaggio da peacekeeping peace enforcement, fu la caduta di Srebrenica nel luglio del 1995 per mano del generale serbo Radko Mladić, causando un massacro di oltre 8.000 uomini e ragazzi musulmani che avevano cercato riparo nell’area protetta dai caschi blu olandesi, vittime della paura delle Nazioni Unite di entrare in guerra contro la Serbia. Nel luglio del 1995, alla Conferenza di Londra, si stabilì che qualsiasi attacco alle zone protette avrebbe provocato una reazione da parte di NATO e RRF. Veniva quindi, troppo tardi, assegnata ai militari la responsabilità di autorizzare l’attacco e l’uso della forza.

Il 28 agosto 1995, a seguito del secondo sanguinoso attacco al mercato di Sarajevo, attribuito ad un colpo di mortaio delle linee serbe, veniva lanciata l’operazione Deliberate Force. Numerosi velivoli NATO colpirono gli obiettivi serbi attorno a Sarajevo e venne intimato il ritiro delle armi pesanti. La pressione ottenne il risultato sperato, il 14 settembre le forze serbe capitolarono e il 5 ottobre fu annunciato il cessate il fuoco.

Quello che per la Comunità internazionale pareva impossibile fu quindi raggiunto in circa un mese, una volta superata la logica dell’equidistanza e del dialogo a tutti i costi.

Gli Accordi di Dayton

La storia diplomatica degli accordi di Dayton inizia prima della conclusione del conflitto in Bosnia-Erzegovina. In piena guerra, data l’incapacità e l’impotenza delle Nazioni Unite di far fronte alle atrocità in atto, gli Stati Uniti rilanciarono il vecchio concetto di “concerto delle grandi potenze”, costituendo un “Gruppo di contatto” con Francia, Germania, Russia e Gran Bretagna. Tale gruppo tentò senza successo una prima ricomposizione del conflitto, proponendo una spartizione della Bosnia tra Serbi e Musulmani.

Gli Stati Uniti si fecero registi della conclusione del conflitto in Bosnia e del suo futuro assetto. I leader di Croazia, Serbia e Bosnia furono condotti a Dayton, una base militare in Ohio, e il 21 novembre 1995 firmarono un accordo per la cessazione delle ostilità. Il trattato fu poi ratificato a Parigi il 14 dicembre.

Gli Accordi di Dayton (General Framework Agreement for Peace) prevedevano che la Bosnia rimanesse uno Stato unitario costituito da due Entità (la Federazione di Bosnia-Erzegovina, croato-musulmana, e la Repubblica Srpska, serba) con fortissime autonomie e una propria Costituzione, con la possibilità di stabilire rapporti privilegiati rispettivamente con la Croazia e con la Serbia. La ripartizione territoriale ricalcava la proposta del “Gruppo di contatto”, che assegnava alla Federazione il 51% del territorio e il restante 49% alla Repubblica Serba.

La NATO avrebbe sorvegliato l’applicazione del trattato per un anno con la propria presenza militare, mentre si sarebbero svolte nuove libere elezioni politiche per la costituzione di un parlamento comune e una presidenza collegiale, in cui le garanzie offerte ai gruppi etnici erano assai simili a quelle dei tempi di Tito. I rifugiati avrebbero fatto ritorno nei propri Paesi di origine e l’Unione Europea e la Banca Mondiale avrebbero garantito i finanziamenti per la ricostruzione. Alla Serbia sarebbero state tolte le sanzioni e a tutta l’ex-Jugoslavia l’embargo per l’acquisto di armi decretato sin dal 1991 dall’ONU.

Nonostante Dayton sia stato salutato con grande entusiasmo dalla stampa internazionale, non ha costituito una risposta risolutiva al problema della convivenza tra etnie. Al contrario, esso non risolve con chiarezza il “dilemma” tra il primato della cittadinanza e primato dell’etnia, passaggio fondamentale verso la costituzione dello Stato etnico. Infatti, gli accordi di pace potevano essere interpretati come un primo passo tanto per la riunificazione della Bosnia, quanto per la sua definitiva disgregazione. Inoltre non è da sottovalutare che essi furono stipulati dai responsabili stessi del conflitto che si intendeva concludere, apparendo così evidente che il riconoscimento internazionale premiasse proprio costoro.

Sostanzialmente, l’intervento della comunità internazionale non fu in grado di affrontare il problema di un forte Stato centrale capace di opporsi alla forza dei nazionalismi etnici. Dayton, con le sue contraddizioni e le sue ambiguità, fu l’epilogo dell’incapacità della comunità internazionale di comprendere le ragioni profonde del conflitto che stava lacerando i Balcani e di formulare soluzioni adeguate alla difficile convivenza tra etnie, scegliendo di dividerle invece di integrarle.

L’intervento NATO nella crisi in Kosovo

In Kosovo gli scontri si intensificarono nel 1998, quando l’esercito di liberazione del Kosovo (UCK) si ribellò apertamente al controllo serbo, provocando un dispiegamento di forze militari e di polizia per reprimere le rivolte. Nelle campagne di repressione, le forze serbe attaccarono duramente i civili, bombardando villaggi e costringendo i Kosovari-Albanesi alla fuga.

Ancora una volta, la risposta della Comunità internazionale fu poco tempestiva e ambigua. Se da un lato non si voleva mettere in discussione l’integrità territoriale serba che impediva la secessione kosovara, dall’altro si affermava l’intento di non voler tollerare una nuova esperienza come quella bosniaca. Così, dopo il rapporto dell’UNHCR che testimoniava la brutale e implacabile azione serba contro i villaggi albanesi, il 23 settembre 1999 il Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite adottò la Risoluzione 1199, con il quale si chiedeva alla Serbia di ritirare le proprie forze di sicurezza dal territorio.

Nel gennaio 2000, in seguito alle ricorrenti violenze, scattò un ultimatum della comunità internazionale. Il mese successivo, i serbi furono convocati alla Conferenza di Rambouillet nel corso della quale fu presentata una proposta che Milošević avrebbe difficilmente accolto. Si trattava di accettare la presenza di truppe NATO nel territorio jugoslavo e di acconsentire ad un referendum sul destino della provincia. Col fallimento della Conferenza di Rambouillet, le forze NATO si sentirono autorizzate ad intervenire per applicare la risoluzione 1199, pur senza una specifica autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza.

L’attacco aereo alla Serbia portava come risposta un aumento della pressione sugli albanesi del Kosovo, costretti ad un esodo di massa verso Albania e Macedonia del Nord. Diventò quindi necessario per la NATO avviare un’operazione umanitaria nei due Paesi per scongiurare un disastro.

La pressione diplomatica dell’alleato russo, combinata con 72 giorni di bombardamenti continui sulle forze serbe in Kosovo e in Serbia, portarono Milošević ad accettare le condizioni del cessate il fuoco il 3 giugno 2000. Dopo la firma di un primo Military Agreement, le forze NATO in Kosovo (KFOR) e quelle russe entrarono nella provincia ribelle, seguite dai profughi albanesi in rientro e da una pletora di ONG.

L’ONU, esclusa dalla gestione della crisi, rientrava in giovo per gestire la pace, con la creazione di una Interim UN Administration basata su quattro strutture: UNHCR (affari umanitari), Unione Europea (ricostruzione), UNMIK (United Nation Mission in Kosovo) e OSCE (institution building). Da parte albanese si costituì un governo parallelo e il leader della resistenza locale, Hashim Tachi, si autoproclamò primo ministro, escludendo le componenti moderate dalla gestione della transizione alla normalità.

Nonostante le iniziali violenze anti-serbe, il rappresentante speciale delle Nazioni Unite Kouchner preferì collaborare con le forze ribelli albanesi, partendo dall’assunto che solo la loro inclusione nel processo di pacificazione avrebbe annullato il potenziale di destabilizzazione. Questa scelta si sconta tutt’oggi, nelle difficoltà che si continuano a riscontrare nel processo di smobilitazione e riconversione delle forze paramilitari kosovare e nel completamento di un effettivo processo di pacificazione.

 

Fonti e approfondimenti

Andreatta, Filippo. Istituzioni per la Pace. Bologna: Il Mulino, 2000.

Britannica, “Dayton Accords“.

Giacomello, Giampiero e Gianmarco Badialetti. Manuale Di Studi Strategici. Milano: Vita e Pensiero, 2016.

ICTY, “The conflict in former Yugoslavia“.

NATO, “History of the KFOR“.

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